Duecento chilometri potrebbero essere la giusta distanza. Quelli che separano Falcioni, la frazione di Genga dove abito, da Arquata del Tronto. Ma non lo sono. Ed è evidente da subito, appena digito il toponimo Arquata sul navigatore della macchina, e compare l’icona “centro città”, in cui aggiungere l’indirizzo. Ma non c’è più nessun numero civico da raggiungere. Anzi, da oltre due anni non c’è proprio più il paese. Ma questo, il software del navigatore franco-rumeno della Dacia Sandero, seppur recentemente aggiornato, non può saperlo. Duecento chilometri però, una volta partito, per me sono abbastanza. Una macinatura di asfalto, di rock dalla radio e di ricordi che affiorano, si ricompongono, si scompongono, si mescolano.
Tutto iniziò con una telefonata verso le 11 di mattina. Dopo la notte in strada per la paura, insieme a tutta la mia frazione, e un’alba rischiarata dalle immagini televisive, da cui si cominciava a capire che quei lunghissimi centoventi secondi che a noi c’avevano tirato giù dal letto, e fatto scappare in strada, più a Sud, tra Arquata del Tronto, Amatrice e Accumuli, erano stati l’inizio dell’Apocalisse. “Leonardo – mi fa – io non posso non andare subito giù, e ritengo che tu debba venire con me. Che si fa?”. “Certo – rispondo – mi faccio una doccia e vengo sotto casa tua”.
Cominciò così il mio rapporto con questo dolore infinito, che dura da due anni, con il mio terremoto e il loro terremoto; che poi in ultimo, tenuti insieme dal dolore che è uguale per tutti, è diventato presto il nostro terremoto.
E oggi si ritorna, a un anno di distanza dall’ultima volta, e qualche settimana dopo il secondo anniversario. In mezzo a questo tempo c’è tanto: un rapporto con quei luoghi, con le persone che sono rimaste, con quelle che sono ritornate. Le cose che sono accadute e quelle che ancora non riescono ad accadere.
Arquata del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
Dopo Ascoli Piceno inizia a piovere. Una pioggia mite che non dà fastidio, ma che al contrario favorisce la concentrazione e l’osservazione. Da Quintodecimo ho l’immediata percezione che se non proprio tutto, ma quasi, sia ancora come quella mattina del 24 agosto di due anni fa. Anche dopo Favalanciata, la percezione non cambia. Crolli non ancora rimossi, cerchiature, puntellamenti, ma tutti interventi che non vanno non oltre il disciplinare delle opere provvisionali. Gli unici cantieri aperti, dove è evidente la progressività dello stato di avanzamento dei lavori, sono quelli per l’adeguamento del tratto stradale della SS4 “Salaria” tra la località Trisungo e la galleria “Valgarizia”, in provincia di Ascoli Piceno, della lunghezza complessiva di circa 3 chilometri. “L’intervento rientra nel piano Anas di potenziamento e completamento delle infrastrutture viarie dell’Area del cratere sismico. I lavori consentiranno infatti di superare le criticità di accessibilità al territorio legate all’orografia del territorio e alla tortuosità del tracciato attuale, innalzando i livelli di servizio dell’infrastruttura nonché gli standard di sicurezza per la circolazione”. Così dichiarava qualche tempo fa il presidente di Anas, Gianni Vittorio Armani. Un cantiere che durerà tre anni, per un investimento di 90 milioni di euro. L’impresa risultata aggiudicataria è “Carena SpA”, con sede a Genova. E che i lavori, almeno per la nuova strada, agognata dalla politica regionale e locale ben prima del terremoto, siano a pieno regime, lo osservo dai mezzi di cantiere in movimento lungo l’attuale tracciato, e dalle maestranze in tuta arancione che vi si avvicendano e che animano le chiacchiere del bar provvisorio nella struttura di poliuretano a Trisungo, frazione ai piedi del borgo di Arquata. Dove le sonorità di dialetti radicati molto più a Sud della sede legale della ditta appaltatrice, si mescolano con le tipiche inflessioni picene dei giovani baristi, che con coraggio e tenacia hanno deciso di ripartire dopo aver perso tutto.
Arquata del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
Da Trisungo mi dirigo verso Arquata, arrivando al villaggio Sae “Borgo”. Fino a due anni fa, in quello spiazzo sotto il Castello di Arquata, c’era il campo da calcio del paese, con la tribunetta, gli spogliatoi e un baretto. Poi, dalle prime luci dell’alba del 24 Agosto, è stato campo base della Protezione Civile per l’emergenza e il coordinamento dei soccorsi, della conta dei vivi e dei morti, tendopoli per gli abitanti e sede della tensostruttura che ha ospitato le scuola di Arquata, montata a tempo record dalla Regione Emilia Romagna. Fino a quando, le scosse del 26 e 30 ottobre 2016, che hanno polverizzato quel che rimaneva del paese e delle frazioni, hanno mandato via tutti. E’ iniziata la deportazione al mare, nelle strutture ricettive della costa. I primi ritorni sono stati a metà giugno 2017, quando sono state consegnate le prime Sae del villaggio “Pescara”, costruito nella striscia di terreno che più avanti, lungo la Salaria, separa il letto torrentizio del fiume Tronto e la storica e romana Via del Sale. Poi in seguito, è stato completato il villaggio Sae a Borgo di Arquata, appendendo al chiodo per sempre ogni velleità calcistica del paese. Visto da sopra la strada, un po’ dall’alto, realizzo qui, più che in altre situazioni, che i quattro toni pastello che si alternano a separare le pareti esterne di una Sae dall’altra, e il quinto tono che contraddistingue dalle casette civili gli edifici religiosi o utilizzati per servizi pubblici, rappresentano il nuovo pantone urbanistico dell’Appennino terremotato. Tutti i villaggi Sae replicano questo schema cromatico, andando a ridisegnare lo skyline di questi territori.
Qui, come al villaggio “Borgo 2”, che sta un po’ più sopra, lungo la strada che sale verso Piedilama, non c’è molto movimento umano. Dopotutto, fatta eccezione per qualche anziano seduto sul portico della propria casetta provvisoria, non c’è motivo per viverci molto della giornata nel villaggio. Non essendoci servizi di nessun tipo, e neanche attività commerciali, non c’è alcuna ragione di esistere per una vita di comunità pubblica e sociale, come era nei paesi originari, adesso sbriciolati. Al Castello di Arquata non si sale. Ci sono ancora i militari al posto di blocco, così come li ritroverò più tardi iniziando a salire verso Pescara del Tronto. Stanno ancora portando via le macerie e facendo le demolizioni. Tutte zone off limits.
Arquata del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
Pretare è il Paese delle Fate, dei miti e dei riti ancestrali. Ma anche queste creature dello spirito sono scappate vie, terrorizzate dalla furia della natura, e quel che rimane adesso di questo grazioso borgo, sono solo i resti di edifici dilaniati, macerie, ruspe e mezzi pesanti che, guidati dagli uomini in mimetica, stanno demolendo il poco che è restato in piedi. Ai bordi delle macerie, il mini villaggio Sae per la manciata di abitanti che sono tornati, e la struttura in poliuretano del ristorante-bar, migrato dalla sede originaria a Forca di Presta, crollata quella notte, dove decido di fare la sosta pranzo. Pochi gli avventori, qualche operaio delle ditte esecutrici di lavori, e alcuni studenti universitari di fuori, venuti a “studiare il Cratere”. Mangio, e ascolto le chiacchiere. Si parla della strada provinciale 89 che collega Arquata a Montegallo, chiusa dal 24 agosto di due anni fa, e riaperta solo qualche settimana fa. Un lasso di tempo eterno, per un collegamento vitale tra i borghi di questo territorio. Il “si dice”, che poi è sempre una mezza verità, al tavolo accanto al mio, è che poi, gli interventi necessari per rendere di nuovo transitabile la strada, non giustifichino affatto tutto il tempo per cui è restata chiusa, e che ci sarebbe “stato sotto qualcos’altro”.
Dopo pranzo a Pretare sono scomparsi anche i militari. Adesso sono solo. In mezzo a questo status permanente di lutto cittadino, proclamato da oltre due anni e non ancora revocato, mi chiedo come facciano delle famiglie a fare delle gite domenicali da queste parti, portando dei ragazzini “a vedere i borghi feriti”, come poi raccontano sui social. Mah, forse i manichini del Guerin Meschino e del Pastore, che anonimi abitanti spostano nottetempo tra le case distrutte di Pretare, man mano che le demolizioni avanzano, potrebbero sapere la ragione profonda di un ancestrale e macabro senso educativo che sedimenta nel fondo dell’animo umano.
Pretare di Arquata del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
Alla zona industriale di Pescara del Tronto, lungo la Salaria, il lungo pannello antirumore con le rondini adesive sul plexiglass, separa la carreggiata stradale delle Sae costruite proprio sul bordo del guard-rail. Più avanti, il nuovo villaggio commerciale e, poco oltre, lo stabilimento della Tod’s dei Della Valle, frutto del mecenatismo capitalista marchigiano, costruito come segno di rilancio e ripartenza di questi luoghi. Inaugurato nel dicembre 2017, occupa una cinquantina di addetti. “Se vogliamo che torni tutta la comunità bisogna creare lavoro per i giovani” è il mantra che usa ripetere in ogni intervista il sindaco di Arquata, Aleandro Petrucci. Ma quale lavoro, poi? Il manifatturiero tradizionale, come quello delle scarpe? E’ questo il lavoro che terrà i giovani in questi territori? Al bar dell’area commerciale, tenuto aperto da una signora e da sua figlia, che prima del terremoto avevano l’esercizio e la casa a Pretare, e che ora fanno le pendolari tra qui ed Ascoli Piceno (circa 40 chilometri), mi raccontano che poi, alla fine, tra tutte le maestranze assunte dai Della Valle, ci sarebbero uno di Pescara del Tronto e tre di Arquata; tutti gli altri dipendenti sono di centri più distanti, e via via, fortunatamente, meno terremotati. Adesso, degli abitanti del Comune di Arquata, con tutte le sue tredici frazioni, ne sono rientrati, nei diversi villaggi Sae, circa la metà. Gli altri hanno già deciso di ricostruirsi una vita altrove. “Hanno inaugurato il centro polivalente e la palestra da poco, mesi fa la scuola – mi dice il mio interlocutore – tutti dono della Fondazione “Specchio dei Tempi” del quotidiano La Stampa. Ma servono i bambini e i giovani, per utilizzarle…”. E allora, nella chiacchiera, vengono al nodo le questioni vere, per il futuro di queste zone, e che poco hanno a che fare con la narrazione che da due anni ne viene restituita, il più delle volte distratta se non superficiale, in altri casi frutto di una autentica mistificazione.
Borgo di Arquata del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
Qui, nelle frazioni, sia dove sono rimaste abitazioni agibili ed abitate, sia in quelle dove sono state costruite le Sae, non ci sono più le attività commerciali storiche: il bar, il tabacchi e l’edicola, il forno, il piccolo negozio alimentari a servizio per primo della quotidianità degli abitanti. Stefano, il fornaio di Arquata, scoraggiato perché impossibilitato a riaprire in qualche modo la sua bottega, s’è rimesso a fare la guida escursionistica, come quando era giovane. Questi esercizi, che prima stavano nei borghi, sono stati concentrati tutti qui nell’area Sae e commerciale lungo la Salaria. Primo risultato: chi riesce a continuare a vivere nelle frazioni, a parte un tetto e un letto, come si dice, non ha nient’altro. Quanto resisterà a campare lì così? E quanti adesso si ritrovano tutti al centro commerciale provvisorio, con clienti quotidiani gli abitanti del villaggio Sae, non riescono già ora ad avere un incasso giornaliero soddisfacente, essendoci qui adesso una molteplicità di attività che vanno molto oltre il fabbisogno di mercato. Si dirà, ci sono i turisti che arrivano. Ma questo non è poi neanche tanto vero, e poi il turismo mordi e fuggi, spesso concentrato solo in estate, non risolve proprio nulla. A questi negozianti, quando prima del terremoto stavano nelle frazioni, l’incasso, quello che serviva a mandare avanti tutta la famiglia, glielo facevano oltre agli abitanti, i proprietari delle seconde case, i villeggianti, che avevano qui immobili spesso frutto di lasciti familiari, e che venivano tutti i fine settimana durante l’anno, e d’estate si piazzavano al paese per settimane. E che erano molti di più degli abitanti, esponenzialmente di più. “Pescara aveva cento abitanti – mi dice Vinicio – ma d’estate arrivava ad un migliaio.”
Pescara del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
Questo dato, e i racconti degli amici arquatani, assieme ad un quadro più ampio dell’intero Cratere, mi confermano due cose. La prima, un’ovvietà già detta e scritta, in via generale un po’ anche una forzatura: che quello del 2016 è stato anche il terremoto delle seconde case. In diversi paesi dell’Appennino marchigiano, i patrimoni immobiliari sono (erano?) costituiti maggioritariamente da seconde abitazioni: quelle dei nonni, dei genitori, degli zii, passate di mano tra generazioni, e utilizzate come case vacanza. La seconda è questione non ancora affrontata, e appena percepita dagli interventi e dalla legislazione post sisma, ma che gli abitanti stabili e “i ritornanti” per affetti e radici familiari chiedono. Ovvero la possibilità che i Comuni individuino aree pubbliche o private, da acquistare a proprie spese per chi ha perduto la seconda casa, dove poterci installare temporaneamente con una concessione urbanistica rinnovabile di anno in anno, e sempre a proprie spese, un camper fisso, o una casetta in legno o altro materiale, rispettando decoro e compatibilità paesaggistica. E pagandosi, sempre in proprio, utenze, allacci, servizi. Perché chi ha avuto inagibile o distrutta la seconda casa, ha il diritto al contributo totale per la ricostruzione (stimato dallo Stato in circa 1600 euro a metro quadrato), ma non ha quello al percepimento del Contributo di autonoma sistemazione, o all’assegnazione della Sae. Per cui, rischia di aspettare molti anni per avere un immobile nel quale poter ritornare per periodi più o meno lunghi. E continuare a fare vita di paese, contribuendo alla ricostruzione indispensabile di legami di comunità.
Mi raccontano che ad Arquata, con tenacia e passione, molti di questi abitanti pendolari, in questi due anni sono continuati a ritornare, dormendo anche in macchina, o ospiti alla meglio di amici a parenti nella Sae. Temono, gli abitanti di Arquata, che se non si trova una risposta veloce ed efficace a questa esigenza, alla lunga queste persone si stanchino, si demotivino, mollino, e trovino soluzioni di villeggiatura da altre parti, nonostante i legami affettivi. Qui stiamo a 150 chilometri circa da Roma, e i marchigiani-romani originari del posto sono moltissimi. Questa questione, così sentita e necessaria, a cominciare dal modo con cui me ne parlano, ribalta completamente una narrazione che finora è stata suonata a gran cassa, per il rilancio della vita e dell’economia di queste zone. Ovvero, che la panacea di tutti i problemi, sia il turismo.
Borgo di Arquata del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
Quando invece più che i turisti, servono i villeggianti. I quali, anche prima del terremoto, erano quelli che, avendo un patrimonio immobiliare, erano anche stimolati a prendersi cura dei paesi insieme alla casa propria, e a contribuire e partecipare alla vita e alla socialità della comunità locale. E, cosa non secondaria, a quella piccola economia locale, che è ben diversa dalla promozione e vendita del gadget enogastronomico a misura di turista di passaggio. Anche se qui con i due parchi nazionali, Laga e Sibillini, il turismo escursionistico e naturalistico è pratica diffusa si tratta pur sempre, per tradizione, di un attività giornaliera. Ancora di più ora che la gran parte delle strutture ricettive sono inagibili, fatta eccezione per qualche rifugio in quota, ma si tratta di pochissimi posti letto e ben lontani dalla valle abitata. Quindi, questa tipologia di turista, arriva, sta qualche ora, consuma sicuramente qualcosa, e se ne va via. E, per intrinseca dinamica, difficilmente ritorna. Il camminatore, il motociclista, il naturalista o l’appassionato del patrimonio artistico (di cui peraltro ora è rimasto ben poco), tanto per fare degli esempi, difficilmente se ne riparte con lo zaino o la busta piena di vivande, o con il pacco famiglia. Il villeggiante, al contrario, se viene per il week-end, le feste comandate o per le ferie, soggiorna a lungo, fa la spesa in loco perché si cucina a casa, e magari se ne riparte con un chilo di bistecche o qualche forma di cacio per il consumo familiare in città.
Mi faccio un giro con Vinicio, prima di congedarmi, tra le SAE di Pescara. Noto che in alcune è stata aggiunta una struttura di legno e vetro a chiudere il portico aperto sui tre lati, generando una ulteriore cubatura. “E’ per il freddo – mi dice Vinicio – l’ho fatta anche io, come tutti, a spese mie”. “Ma ve l’hanno fatto fare – chiedo – non vi hanno rotto le scatole?”. “No – mi risponde – o meglio all’inizio c’hanno provato. Ma poi hanno lasciato perdere. Hanno ben altre questioni a cui star dietro”.
Piedilama di Arquata del Tronto, 24 agosto 2018. Fotografia di Giancarlo Malandra
L’autore. Leonardo Animali, nato a Jesi (An), 48 anni, vive da qualche anno in una piccola frazione di 29 abitanti del Comune di Genga (An). Insieme ad abitanti, associazioni, e cittadini, ha dato vita ad un comitato civico che si chiama Riprendiamocilastrada e si batte per la restituzione pubblica di un tratto di strada pubblica storica, la Strada Clementina, in mezzo alla Gola della Rossa, da decenni data in uso esclusivo alle imprese delle cave. Si occupa, come libero professionista, di agroalimentare e di promozione di imprese agricole a filiera corta. E’ socio di un’associazione di promozione sociale, “Bagatto Percorsi Creativi”, che opera nel territorio nei settori teatrale, musicale e letterario. Ha un blog: http://hopassatolafrontiera.blogspot.it
Il fotografo. Giancarlo Malandra è nato a Chieti nel 1968 e vive a Giulianova. Fotografo professionista impegnato per lavoro soprattutto nella fotografia di cerimonia, si dedica anche a progetti di ricerca personali, in maniera particolare documentando le tradizioni popolari della sua regione, l’Abruzzo, e non solo. Si è già confrontato con gli scenari del doposisma prima con il lavoro collettivo “3:32 i segni del terremoto” e successivamente con il reportage “La città negata” sulle conseguenze del sisma del 6 aprile 2009 a L’Aquila. I suoi reportage sono stati pubblicati, fra gli altri, da Touring Club Italiano, Witness Journal e Tesori d’Abruzzo.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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