Pino Marucci, terremotato di Pieve Bovigliana, ospite del villaggio turistico Le Mimose di Porto Sant’Elpidio
«Sei mesi e ritornerete qui» gli avevano detto per convincerli a lasciare i paesi e spostarsi sulla costa. Impossibile non accorgersi di loro fuori dagli alberghi, vederli disorientati a passeggio lungo i marciapiedi, fermi sulle soglie dei negozi. Mi hanno raccontato che un giorno, fuori da un albergo di San Benedetto del Tronto, durante una nevicata, alcuni di questi anziani guardavano scendere i fiocchi dal cielo meravigliati, gli occhi rivolti verso l’alto, come se un po’ del loro antico inverno delle montagne fosse arrivato a sorprenderli anche in riva al mare, insieme al freddo e al cielo grigio.
Quando cominciai questo viaggio i primi che andai a trovare furono proprio alcuni dei 5.322 ospiti degli oltre 300 alberghi di Rimini, Porto Sant’Elpidio, Porto San Giorgio, Grottammare, Porto d’Ascoli, fino a Martinsicuro, Alba Adriatica e Tortoreto Lido. Stretti in quindici metri quadri, le foto dei figli o dei genitori appoggiate ai comodini, le scatole delle scarpe impilate una sopra l’altra contro le pareti o abbandonate sul balcone, sospesi tra la costa e l’entroterra, in questi due mondi lontani e inconciliabili, uno fatto di moltitudini e l’altro di solitudini.
Evaristo parte tutti i giorni dall’hotel Maestrale sul lungomare di Porto d’Ascoli, raggiunge con la Panda la campagna sotto Spinetoli, va in via Pilino, dove ha portato i suoi animali da Trisungo. Robusto, due sopracciglia cespugliose, baffi e barba anche loro molto folti, la faccia larga. «Ho fatto la transumanza» racconta divertito quando ci incontriamo, mentre apre un cancello rudimentale dal quale si accede all’aia del rudere di campagna. Dentro ci sono le sue quindici capre, le oche e le galline che bevono nelle pozze e nei recipienti, corrono e agitano le ali. Al centro il caprone tibetano, due corna arricciate, quello che lui chiama «lu maschio de casa». Qui ha ricostruito un po’ dell’habitat della montagna che gli manca nella stanza d’albergo dove vive da ottobre con la moglie. Inizialmente si sono accampati in tenda, poi hanno dormito per un mese nell’abitacolo della Panda e all’Hotel Centrale di Acquasanta Terme, prima di trovare asilo sulla costa adriatica. «Le ho portate col furgone di un amico macellaio, ha caricato anche il fieno, e quando siamo arrivati la casa non si vedeva, era avvolta dai rovi». Allora Evaristo s’è rimboccato le maniche, con motosega e decespugliatore ha bonificato tutta l’area per far spazio ai suoi animali.
Evaristo con le sue capre trasportate a Spinetoli dalla campagna di Trisungo
«Dopo il primo terremoto se non c’erano ‘ste bestiole diventavo matto», confessa. Le ultime nate le ha partorite la sua preferita, una capra con le chiazze bianche e nere molto socievole che gli si avvicina ogni volta che la chiama facendo un verso con la bocca che lei riconosce all’istante. «Quaranta centimetri di bestia», così le descrive Evaristo, «ma arrivano dappertutto, s’arrampicano, e puliscono il prato meglio di un tosaerba». La casa è diventata una specie di fattoria sociale, arrivano tutti i giorni genitori con i bambini o scolaresche, ragazzini che vogliono accarezzare gli animali. La sera, prima di tornare all’albergo a Porto d’Ascoli, li rimette nel pollaio, dove passano la notte. La sua preferita, «la più affettuosa», uno dei primi giorni gli ha tirato un brutto scherzo: mentre parlava con alcuni amici, s’è infilata sotto le gambe di uno di loro ed è scappata testarda verso la strada. Inutili le ricerche, non sono riusciti a recuperarla. «La sera mi ha chiamato un amico del paese, dicendomi che era arrivata fino in centro, l’avevano trovata davanti a un bar». Invece un maschio a un certo punto era diventato matto, prendeva la rincorsa e incornava, l’ha dovuto fare abbattere. Ci ha pensato il suo amico macellaio, che poi l’ha venduto a gente del Marocco. Nei giorni scorsi Evaristo è tornato a Trisungo per sistemare la vigna, uva di Pecorino, perché «il ceppo che hanno piantato a Offida è nato lì», racconta tutto soddisfatto. «Appena mi danno la baracchetta torno su», dice sorridente, «piano piano si riparte».
Nei quattro chilometri che da San Benedetto del Tronto portano a Martinsicuro c’è già un’altra Italia, cambia anche la luce, che pare meno chiara, le strade sono più trascurate, l’edilizia più povera, anche la natura è meno rigogliosa. Dall’ingresso al paese si arriva subito in centro, una piazza spopolata, il negozio del kebab, il discount. Sulla sinistra via D’Annunzio porta direttamente al mare, che si scorge in lontananza. Qui, proprio all’inizio, si trova l’Hotel Rosa, un alberghetto che sta in un palazzo stretto, poche camere su quattro piani, le sedie di plastica bianche vuote all’ingresso. Ci vivono famiglie soprattutto sfollate da Grisciano e Amatrice. Li vedi mattina e sera seduti lì o sul muretto di fronte, le sigarette in bocca fumanti e lo sguardo svogliato, disorientati a ingannare il tempo, che non passa mai. Molti sono anziani. Alcuni fanno una passeggiata, arrivano alla spiaggia, diverse volte costeggiano il perimetro della piazza a piedi, poi tornano ai piani, sparendo nelle camere; altri la mattina salgono sulla navetta che li porta sulla Salaria fino al paese e fanno ritorno qui solo la sera. Vivendo in una realtà lontana si sentono forestieri, estranei, i vecchi sono costretti a indossare gli abiti buoni, le scarpe eleganti, gli uomini a girare con il vestito della domenica, qui hanno perso anche la libertà di stare trasandati e liberi, da gente di montagna che va a fare legna o coltiva la vigna, come invece facevano a Grisciano fuori e dentro le loro case che non ci sono più.
I coniugi Alberto e Nazzarena Gigli, originari di Trisungo, seduti nel loro orto ad Arquata del Tronto
Oggi Arianna Angelini è arrivata da Roma a trovare suo padre Renato, un uomo dai capelli brizzolati corti e il volto espressivo, con una maglietta nera attillata, che vive nell’albergo dai primi di giugno con sua moglie. «Prima sono stato a San Benedetto del Tronto al Poseidon e al Bolivar, poi mi hanno mandato qui come un pacco postale». Al paese faceva l’artigiano, il pittore murale, la sua casa è molto lesionata, dovrà demolirla, mi racconta seduto sul divano accanto a sua figlia, nella saletta riservata agli ospiti. «Non avere più un posto è un disagio grande, non abbiamo più un’identità, non siamo più niente, ci manca tutto» dice commosso. «Al paese sapevamo quello che dovevamo fare, quale era il nostro posto, lì c’era la nostra vita» continua malinconico. Prende la navetta tutti i giorni, rientra nel suo paese a controllare l’orto, parte la mattina con grande entusiasmo e torna la sera al tramonto malinconico. «Ci sono gli orti coltivati ma non c’è nessuno, la gente c’è ma non c’è» suggerisce sua figlia, una donna con i capelli biondi cortissimi e un bel viso abbronzato, «perché quelle piante e quei fiori che curano restano a vivere lì senza di loro».
La madre non voleva che restasse a Grisciano e la spinse ad andare fuori, così a diciotto anni si trasferì a Roma per studiare all’università. È stata la prima laureata del paese, lavora in un ente di ricerca che si occupa di formazione e mercato del lavoro. Però quando torna in paese a lei non piace la definizione di «non residente», come se dovesse sentirsi un’estranea o meno paesana degli altri. «Per me era anche una seconda casa, ma quello è il mio paese, c’è la mia gente» dice orgogliosa, «in questo momento le radici escono fuori violentemente perché sono in pericolo».
Dice che la natura non è stata malvagia, sia lei che suo padre sono legatissimi a quei luoghi. «La montagna è come se fosse una madre» sostiene Renato, «l’abbiamo protetta come fosse una persona, tagliando gli alberi e facendo legna da ardere, curando gli animali». «Il terremoto è un evento naturale» aggiunge sua figlia, «la montagna è stata ferita quanto noi, dobbiamo fare di tutto per non farla morire».
Intanto scendono persone dai piani, diversi salgono con l’ascensore che è di fronte, altri sfollati sono ancora fuori, li intravedo dalla portafinestra. Non si danno pace, parlano nei cellulari che in questi mesi sono stati ricettacoli di sfoghi, di lamenti, il loro unico punto fermo: la voce poteva liberarsi e raccontare tutto quanto accadeva, dentro e fuori di loro, in tempo reale.
Cantiere di smaltimento delle macerie su via Salaria tra Arquata del Tronto (Ap) e Grisciano di Accumoli
La signora Anna, che si avvicina per salutare, una donna anziana di Amatrice, dice che ha lavorato ai ferri tutto l’inverno, facendo fuori parecchi gomitoli di lana. Dopo la scossa del 30 ottobre è stata al Relax di San Benedetto del Tronto, poi al Marconi a Grottammare, questo è il terzo hotel dove soggiorna. «È triste vivere in una stanza d’albergo» dice, «dopo un anno neanche alla Reggia di Caserta mi troverei bene». Ma per le famiglie con bambini è ancora peggio perché vivono il disagio di condividere poco più di venti metri quadri. Lei ha paura, la terra continua a tremare. Sostiene che ogni 300 anni c’è questa maledizione, quella delle tre A, prima crolla L’Aquila, poi Amatrice, e alla fine Avezzano.
Arianna è una che non vuole cancellare, l’idea del suo paese resiste nei ricordi, che tiene vivi quando guarda gli oggetti, le cose, incontra le persone. La chiama «sovrapposizione». «Quando arrivo a Grisciano le macerie non le distinguo più, rivedo la vita che c’era prima, quando le hanno rimosse e si scorgevano di nuovo le strade, vedevo i bambini lanciati con la bicicletta, o la banda che passava, al bar spopolato e chiuso sovrappongo i tavoli, la gente che gioca a carte. Io il mio paese, ancora lo vedo!».
Quelle terre sono state invase dalle telecamere, violentate dalle dirette. I sopravvissuti sono diventati i protagonisti di una soap opera dal vero che non si sono resi neanche conto di girare. «È diventato un palcoscenico» dice Arianna irritata, «per questo non tolgono ancora le macerie». Dice che quando arrivavano i reporter si sentiva violentata, anche quando fotografavano la sua casa sventrata. «Lì ci vivevano e ci sono morte delle persone. Sono morte due volte, perché adesso con la casa è crollato anche il ricordo».
Amatrice
Quando chiedi loro dove si trovavano quella prima notte di agosto sai che riaprirai la ferita, e racconteranno una storia che hanno raccontato moltissime volte, ma anche se l’hanno ripetuta così tanto è sempre viva drammaticamente anche adesso. «Siamo riusciti a scappare nel terrore» dice Renato di lui e del nipote Tommaso di undici anni. All’inizio non riusciva ad aprire il portone, e questa è stata la sua fortuna, fosse riuscito sarebbe morto per il crollo delle case vicine. «C’era un polverone, siamo saliti sopra le macerie a piedi scalzi». «Sono volati» dice Arianna, «mio figlio aveva i piedi integri, senza graffi o ferite». Il piccolo Tommaso quando sono riusciti ad aprire la porta ha pensato di essere il personaggio di un film apocalittico, erano morti tutti e lui e suo nonno erano gli unici sopravvissuti in una terra desolata. Il fratello di Arianna, uscito da una casa vicina, ha visto suo nipote con le braccia strette alla testa, a proteggersi, «continua a dire che quando lo ha visto vivo è stato il momento più bello della sua vita» racconta sorridendo mentre nasconde le lacrime con gli occhiali da sole. Il terremoto l’ha immaginato come un animale in quei momenti, «una bestia che corre sottoterra e con le unghie alza la superficie, come un drago sotterraneo, lo sentivi sotto i piedi».
In questi mesi tutti i cimiteri dei paesi colpiti dal terremoto sono stati abbandonati, le competenze prima erano degli Enti locali poi delle Regioni, ma non è cambiato niente. Secondo Arianna lasciarli abbandonati è come negare un principio di civiltà: «si nega la possibilità di celebrare il culto dei morti» dice seria. «Dentro ci sono le bare aperte, cadute con le scosse, le ossa sparse, portate in giro dai cinghiali». Quando entra nei dettagli, mi dice che si vedono gli scheletri, «anche le ricrescite dei capelli, al limite dell’horror».
Amatrice
Sostiene che ha ragione suo padre a dire che «la montagna rende poco e costa tanto, vogliono che abbandoniamo questi luoghi, noi siamo artigiani, allevatori, agricoltori, il cuore antico dell’Italia è questo». Mi parla della noia passiva, quella che qui vivono in molti, della gestione quotidiana del tempo e di un’attesa infinita che snerva. Ma qua fuori c’è anche un pezzo di vita provvisoria, «quando esco a fare la spesa incontro il mio compaesano» confessa Arianna divertita, «più avanti ce ne sono fermi altri due che stanno conversando, così si ricreano un po’ le relazioni del paese.»
«Questa vita non è la nostra,» continua a lamentarsi Renato, «mi sento inutile». Vivi sospeso in questo tempo immobile e non sai che ne sarà del tuo domani, mi fa capire, perché niente sarà più come prima. «Ci vorrà molto tempo per tornare alla realtà, come si vivrà lassù, non lo sappiamo, ma siamo persone senza futuro adesso». Lei sul futuro vede nero: molta gente non tornerà a vivere nei paesi dell’Appennino. Gli altri, quelli più attaccati alla terra, dopo mesi torneranno lassù e troveranno un paesaggio diverso, le distanze saranno cambiate, i vicini di casa non saranno più gli stessi. «Alcuni dicono non ci torno perché non c’è più niente, ma non c’era niente neanche prima» dice sconsolata, facendo un sorriso beffardo.
Vigili del fuoco durante i lavori di messa in sicurezza del campanile di Accumoli (Ri).
Il camping Le mimose si trova a Porto Sant’Elpidio, a ridosso del lungomare. Alle cinque del pomeriggio di una giornata di fine dicembre sembra un posto disabitato. Nella hall molto illuminata ci sono due donne dietro il bancone, il bar è vuoto, scorgo dai vetri la sagoma della commessa che sta sistemando gli addobbi natalizi, fuori c’è un ragazzo biondiccio e stralunato seduto al buio su una panchina con un cellulare stretto nel palmo della mano, compenetrato guarda il display che gli illumina il viso.
Per Diego Camillozzi tra pochi giorni sarà il secondo Natale passato lontano dal suo paese. Lo incontro sul piazzale. È un ragazzo con un viso ovale e il naso insellato, capelli corti e barba scura, mi accompagna nel suo alloggio, un piccolo appartamento a schiera di venticinque metri quadri, dove vive con la compagna. Parliamo seduti intorno al tavolino ingorgato del piccolo tinello, sopra una scatola di cioccolatini, tovaglioli di carta, la macchina del caffè espresso, alle mie spalle c’è l’angolo cottura, in fondo il frigorifero, e sul lato opposto un divanoletto, sotto il quale sono sistemate scatole con scarpe e indumenti. Il problema è che nel camping è ospite anche la donna con la quale ha messo al mondo il figlio di dieci anni, anche lei sfollata da Pieve Torina: il terremoto li ha costretti a vivere controvoglia a stretto contatto. «È comodo un po’ per tutti, ma non è neanche semplice, ti vedi tutti i giorni», dice reticente. Da quello che capisco, la storia ha lasciato degli strascichi e ogni tanto le vecchie acredini inevitabilmente riemergono.
Invece all’Holiday è stato bene, «c’era gente di Pieve Bovigliana, Pieve Torina e Visso, si è ricreata una comunità». Tiravano a far tardi in quella hall spaziosa, seduti ai tavolini e sui divani, «si parlava tantissimo, tutti avevamo paura di andare a dormire, perché di notte, stando da soli, la notte prima di prendere sonno cominciavamo a pensare che avevamo perso tutto. Alcuni piangevano sotto le coperte». Dice che anche lui pensava a quello che era successo, che niente sarebbe stato più come prima e pensava che la sua vita sarebbe stata per sempre un’altra, magari in un posto lontano, chissà dove. Pensava che a Muccia, dove è nato, non ci sarebbe tornato più, non era neanche troppo sicuro che l’avrebbero ricostruita e come l’avrebbero ricostruita.
Aratura sul Piano Grande a Castelluccio di Norcia (PG) prima della semina di lenticchie.
All’Holiday sono andati a vivere nel residence dopo il 30 ottobre, la madre con al seguito la badante e il figlio con la sua ex li ha raggiunti subito dopo. Con l’estate però è cambiato tutto, sono arrivati i turisti, le cose sono migliorate, quel senso di disorientamento sembrava dileguato, c’era l’animazione, si socializzava di più, ma la loro condizione restava sempre quella di gente sradicata, costretta a vivere in uno stato di cattività. «Il tempo lo vivi male» dice rammaricato, con una punta di malinconia, «il tempo non finisce mai, le giornate sono lunghissime, sembrano durare di più; mi sono trovato senza casa, in un altro posto, ma quello che mi è mancato di più è il lavoro». Diego faceva il rappresentante di materiali per imballaggi, serviva la ristorazione, le rosticcerie, i supermercati nei paesi del maceratese, ma si spingeva in auto anche fuori dalle Marche, in Umbria, fino a Castelluccio di Norcia.
«Avrei potuto ricominciare qui», mi spiega, «ma il tempo che impieghi per trovare clienti nuovi (e passano magari cinque, sei mesi) già devi spostarti di nuovo». Per un periodo ha trovato un lavoro da magazziniere. Questo per un po’ lo ha aiutato ad andare avanti. «L’alloggio e i pasti sono gratuiti, ma il resto?» dice allarmato. Per lui il lavoro non è solo fatica, guidare tutto il giorno, ma è anche socialità, insomma la vita del commesso viaggiatore gli piaceva. Anche la sua compagna, che aveva già lavorato da queste parti ha trovato qui una nuova occupazione provvisoria, «adesso sarà difficile portarla via» dice svagato. Poi mi racconta di sua madre settantenne, malata di Alzheimer, è preoccupato. «I dottori mi avevano detto di non spostarle gli oggetti, perché questi malati sono abitudinari, fanno fatica ad ambientarsi, e lei è già al terzo trasferimento: prima il bungalow, poi il residence; adesso qui, e la prossima settimana le hanno affidato la casetta a Muccia, dovrò riportarla lassù». Lui adesso non lo sa più dove andrà a vivere. «Dove abiterò?» si chiede scuotendo la testa. La sua compagna potrebbe avere un lavoro a Tolentino, stanno pensando di trasferirsi lì, ma ancora non hanno preso una decisione vera e propria.
«Sapere che non hai più il tuo paese, che non sarà più come prima, è sconfortante, molti non torneranno. Una volta eri nella tua quotidianità, adesso non ce l’hai più, tra un po’ dovrò inventarmi un’altra vita, dovrò trovare un altro lavoro da rappresentante», dice. «In futuro paesi come Castel Sant’Angelo sul Nera non saranno ricostruiti, Visso può darsi, spopoleranno la montagna, arriveranno i grandi gruppi e piazzeranno i centri commerciali, saranno luoghi snaturati». Metteranno in pratica quella che lui chiama «strategia dell’abbandono.» Anche per i più piccoli non è stato facile. «Mio figlio ha dieci anni» dice aggrottando le spalle, «si è ritrovato dallo stare con i ventisei amici di Muccia all’improvviso con ventisei sconosciuti», anche se ammette che loro queste trasferte le prendono come una piccola avventura, «stanno più vicini qui, si cercano, hanno più tempo per giocare, certo adesso quando saranno costretti a spostarsi di nuovo», dice ancora, senza finire la frase.
Daniele Testa, proprietario del ristorante Guerrin Meschino a Castelluccio di Norcia (Pg).
Quando esco di nuovo sullo slargo centrale del campeggio, mentre raggiungo il viale per riprendere l’auto, incontro una ragazza che conosco, Alessia Grieco, mi dice che è qui al lavoro, fa l’educatrice per conto della Caritas. È una ragazza minuta, dai modi calmi, ma a volte mentre parla le viene fuori una forza caparbia quando s’appassiona, e allora diventa improvvisamente più energica. Strana la vita. Tempo fa le ho consegnato dei materiali e qualche dritta per la sua tesi di laurea su uno degli scrittori più eccentrici della letteratura italiana del Novecento, Luigi Di Ruscio, emigrato a Oslo negli anni cinquanta, e adesso è lei che mi sta dando informazioni preziose per questo lavoro. Secondo lei i bambini hanno una capacità di adattamento molto più forte degli adulti, «nella comunità forzata», così la chiama, «sono diventati anche più selvaggi, a livello emotivo si sente l’ansia che covano, anche la rabbia a volte», la tensione che sfocia in improvvisi litigi e serve da sfogo, intuisco. Si ricorda che i bambini facevano il gioco delle casette, ricreavano gli spazi. «Si mettevano a costruirla con i tavoli, i mobili, le sedie, possedere le cose, gli oggetti, è un sentimento molto forte in loro». Secondo lei questo terremoto ha provocato un livellamento sociale, «chi aveva molto poi alla fine non aveva più niente, al contrario chi non aveva niente si è trovato l’alloggio gratuito, poi la casetta, la situazione si è capovolta». In questa popolazione si sono sviluppate meccaniche sociali interessanti, lei che è un osservatrice militante le ha notate, come il dover cambiare abitudini alimentari, per esempio, «il cibo è identitario», dice, «molti si lamentavano del vitto».
Ezio Pierantozzi, accanto alla sua roulotte a Nottoria, frazione di Norcia
Questo succedeva per gli adulti, i bambini no, i bambini sono più resistenti, anche ai luoghi e alle persone non si affezionavano troppo: «c’è un senso di passaggio, non vivono l’abbandono, sai che è una situazione transitoria, tendi a non legarti, anche se inevitabilmente le relazioni si creano», dice laconica, «è come un viaggio, sai che prima o poi farai ritorno a casa». Mi guida dentro un locale di due stanze, stretto stretto, dove c’è il doposcuola. Qui incontro la responsabile Silvia Lauri, mora di capelli, carnagione chiara delicata, un fare apprensivo che le fa centellinare le parole. Quando arrivo, sta preparando i regali di natale da dare ai bambini sfollati con l’aiuto delle educatrici, pacchi con dentro giochi, libri, matite per colorare. Il suo lavoro lo chiama tecnicamente «aiuto di prossimità», l’esperienza che condividono con gli psicologi dell’Asur Area Vasta 4 di Fermo. Comprendo che la sua difficoltà è trovare le parole giuste, quelle necessarie e più oneste. «Ci siamo dedicati nel tempo ai bambini, abbiamo cercato di aiutarli nei compiti. Sono una quindicina, anche tunisini, marocchini, macedoni albanesi, sfollati da Visso, Ussita, Pieve Torina», mi spiega. È da novembre dell’anno scorso che lavora qui come volontaria e adesso che mancano pochi giorni alla fine del 2017, si sente stanca. «I bambini sono molto agitati, alla fine stando insieme uno diventa risorsa dell’altro, dobbiamo ricostruire dinamiche di relazione prima di ricostruire le case» dice decisa, «bisogna superare lo stereotipo del paese e reagire, perché il paese non c’è più e il terremoto ti costringe a rivalutare tante cose».
L’eremita Tadeusz Wrona nell’eremo di San Fiorenzo a Preci (Pg).
Raramente Silvia mi guarda negli occhi. Siamo seduti uno di fronte l’altro in una stanzetta fredda, la ventola del condizionatore soffia aria calda ma fa freddo, mentre scrivo veloce sul taccuino e mi accorgo che sta facendo uno sforzo emotivo per parlarmi. Secondo lei dentro le comunità spesso è avvenuta la scoperta dell’altro, «con gente con la quale non parlavi per abitudine, all’improvviso ti sei dovuto aprire, è successo che sei diventato fondamentale per l’altro solo per il fatto di esserci». E i bambini? Come hanno vissuto lo spavento? «Il terrrore lo raccontano attraverso i disegni il terrore. Parlo di bambini che all’inizio balbettavano, e poi hanno ripreso a parlare. C’è chi disegna la casa rotta o il posto bello dove stavano prima o vogliono tornare, questo è molto ricorrente». Mi fa capire che per loro c’è stata un’esplosione, una specie di bing bang, il disagio lo esprimono con il disordine, nell’espressività corporale, vocale, «lo spavento lo materializzano nel non sapere gestire gli oggetti, lo spazio. Di fondo c’è una paura, quella agisce sempre». Hanno bisogno di sentirsi tranquillizzati. «Per loro l’idea di andare a vivere nella casetta è rassicurante, sanno che è di legno e non potrà crollare». Ma questo terremoto per lei ha due anime distinte: disagio e possibilità. Si sono create nuove comunità e bisogna ripartire: «dallo tsunami si salva solo chi l’onda l’attraversa» finisce col dire compiaciuta, certa di aver detto la cosa giusta, quella che voleva dire.
(il testo e le fotografie sono un estratto dal volume Gli spaesati. Reportage dalle zone del terremoto del Centro Italia
di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, che pubblichiamo dietro gentile concessione degli autori)
Il libro
I terremoti del centro Italia del 24 agosto e 30 ottobre 2016, quello del 18 gennaio 2017, hanno devastato e cambiato per sempre uno dei cuori dell’Italia interna, in quella geografia fatta di piccoli paesi di montagna tra l’Umbria, il Lazio, le Marche e l’Abruzzo, alcuni dei quali completamente distrutti (Amatrice, Accumuli, Pescara del Tronto). Uno scrittore e un fotografo, rinnovando la pratica del reportage, che in Italia ha dato libri indimenticabili, a cominciare da Un paese, il prototipo di Zavattini e Strand, viaggiano per otto mesi dentro il Cratere, nelle Zone rosse dove tutto improvvisamente è cambiato nella vita d’intere comunità, vissute da secoli in simbiosi con la natura, ma raggiungono anche le frazioni più remote, si spingono dentro il cuore della montagna attraversando luoghi di rara bellezza. Nel volume Gli spaesati. Reportage dalle zone del terremoto del Centro Italia (Ediesse, 2018, pp. 182, 16 euro), Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini raccontano i paesaggi feriti, le strade abbandonate, le comunità provvisorie fatte dai restanti che cercano di sviluppare strategie di sopravvivenza. Lo fanno in modo naturale usando al minimo i mezzi espressivi, come spiega Franco Arminio nella prefazione : “Angelo Ferracuti non ha bisogno di caricare la sua lingua con effetti speciali. Giovanni Marrozzini usa un bianco e nero delicato e impietoso”. Ne viene fuori un racconto onesto nell’intersezione tra parola e immagine, dove la condizione umana vive un profondo spaesamento, tra esodi nelle strutture alberghiere della riviera Adriatica e forme di resistenza, soprattutto nelle frazioni sperdute ormai destinate a diventare luoghi persi, dove vivono allevatori e contadini, ristoratori indomiti, pastori macedoni e albanesi, la gente della montagna che non si è arresa alla malora. Un’epica minore nelle vite di Evaristo, che ha spostato le sue capre a valle, Daniele Testa, agricoltore e allevatore nella piana di Castelluccio di Norcia, il Cesetti, abile raccontatore delle macerie di Amatrice, il quale ricorda Gianni il fornaio, il giovane Andrea, da poco laureato in Scienze della montagna, la cameriera rumena Maricica, l’albanese Erjon Toro, e molti altri nella Spoon river d’una tragica notte d’estate; il vecchio pastore Ezio Pierantozzi che abita in una roulette a Nottoria, Francesca Leli, la pastora di Mascioni, così come le comunità religiose e il monaco Tadeusz Wrona, che vive solo nell’eremo di San Fiorenzo, incastonato dentro la montagna, l’uomo più vicino alla faglia. Un’Italia nascosta e più vera, cuore antico della nazione, che prima del terremoto sembrava non esistere.
Gli autori
Piano Grande a Castelluccio di Norcia
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