Sarno, dopo la colata di fango: una storia italiana di ordinaria emergenza in attesa della catastrofe
Ingegneria e antropologia per una visione sistemica del rischio idrogeologico nell’area di Sarno
Collera e violenza del fango. Antropologie del dissesto
di Giovanni Gugg
I disastri sono tutti unici, eppure tutti simili nel loro svelare incompiutezze e rinvii, insufficienze e ingiustizie, inadeguatezze e smemoratezza. Ogni disastro sconvolge il tempo e lo spazio, le relazioni e gli sguardi; dura nel tempo e mette alla prova non solo i luoghi, ma anche la comunità che li abita, ben oltre la fase di emergenza. Tra le tante calamità che possono accadere, in Italia il dissesto idrogeologico è di particolare rilevanza a causa degli impatti sulla popolazione, sulle infrastrutture, sulle vie di comunicazione e sul tessuto economico e produttivo. In maniera più eloquente di qualsiasi altro tipo di rischio, il dissesto idrogeologico – cioè frane, allagamenti, inondazioni, colate rapide di fango – avviene nel punto in cui convergono ambiente, tecnologia e società, ossia là dove si incrociano la pratica umana e la materialità ambientale. Questo disastro, pertanto, dipende dalla natura dei luoghi, dalla (in)adeguatezza delle strutture e dalla presenza o assenza di controlli, ma la sua entità varia in base alla vulnerabilità, ossia all’insieme di condizioni che, legate alle diseguaglianze (di reddito, età, genere, etnia, religione, classe sociale, lavoro, dis-abilità), risultano preponderanti nella creazione del rischio e, di conseguenza, nella manifestazione del disastro.
La particolare conformazione del territorio italiano comporta che fenomeni di dissesto idrogeologico avvengano con molta frequenza, ma a partire dal secondo dopoguerra l’esposizione a questo tipo di rischio è aumentata anche a causa del forte incremento delle aree urbanizzate, cresciute spesso in assenza di una corretta pianificazione territoriale. Come mostra il rapporto dell’ISPRA del 2018 sul dissesto idrogeologico, nel nostro Paese le superfici artificiali sono passate dal 2,7% negli anni ’50 al 7,65% del 2017, ma per avere un quadro completo della fragilità del territorio bisogna considerare anche l’abbandono delle aree rurali montane e collinari e, inevitabilmente, il mancato presidio dei luoghi e l’assenza di una loro manutenzione costante e ordinaria (Trigila et all. 2018).
I disastri idrogeologici che hanno colpito l’Italia nell’ultimo mezzo secolo rappresentano una lente d’ingrandimento politica, economica, sociale; causano una ‘discontinuità sociale totale’ in cui si perdono i propri cari, i riferimenti territoriali e i rapporti sociali, ma di cui ci si dimentica rapidamente, almeno a livello centrale. Localmente ogni sciagura apre una crisi profonda dal carattere totalizzante, eppure su scala nazionale il discorso si fa via via più evanescente, fino a sparire e poi riapparire identico con un nuovo evento drammatico. Studiare le cause e le conseguenze di una frana, le antecedenti vulnerabilità del territorio e le ulteriori fragilità successive, nonché le dinamiche politico-sociali che lo smottamento ha innescato, è un impegno storico e scientifico, oltre che una responsabilità civile e intellettuale.
Che sia un campo il cui interesse va oltre le discipline idrografiche e geologiche, o naturali e ingegneristiche, è attestato da oltre un secolo, quando ai primi del Novecento Roberto Almagià dedicava vari volumi delle «Memorie della Società Geografica Italiana» allo studio delle frane in Italia (ad esempio nel 1907 e nel 1910). Ma è soprattutto negli ultimi 15-20 anni che, a livello nazionale e internazionale, gli studi socio-antropologici hanno prestato un’attenzione crescente a questo tipo di eventi, e ai loro effetti sulle comunità colpite. Per avere un quadro indicativo della vastità degli studi e della varietà degli approcci, si consideri il lavoro di Sandrine Revet (2008) sulla colata di fango nello stato di Vargas, in Venezuela, nel 1999, o quello di Julien Langumière (2009) sull’alluvione in Occitania, in Francia, nel 2000; si ricordi anche l’analisi che Roberto E. Barrios (2011) fa delle inondazioni di New Orleans dovute all’uragano Katrina nel 2005 o quella proposta da Susann Ullberg (2013) per una frana a Santa Fe, in Argentina, nel 2003 o, ancora, la lettura che Michael Main (2019) fa di certa mitologia folklorica emersa in seguito alle colate di fango avvenute nel 2018 dopo un forte terremoto in Papua Nuova Guinea.
Parallelamente, anche in Italia è andata crescendo l’attenzione delle scienze sociali su questo tipo di disastro e, solo in via indicativa, si considerino il contributo di Floriana Ferrara e Giuseppe Forino (2014) sull’alluvione di Genova nel 2011; l’esperienza di Enrico Petrangeli (2015) in merito all’esondazione ad Orvieto del fiume Paglia, il più importante affluente del Tevere, nel 2012; la ricerca di Sabrina Spagnuolo (2017) sull’uso dei socialmedia durante l’alluvione di Benevento nel 2015; le analisi di Loredana Antronico, Francesco De Pascale e altri colleghi (2020) sulla frana di Maierato, in Calabria, nel 2010; l’importante monografia antropologica pubblicata da Irene Falconieri (2017) sulla devastante alluvione di Scaletta Zanclea, in provincia di Messina, nel 2009, che non è una semplice analisi di un evento drammatico, ma l’indagine delle cause politico-ambientali che l’hanno reso possibile, nonché la riflessione sul cambiamento sociale in un territorio disastrato.
In un’intervista del novembre 2012, il geologo e divulgatore Mario Tozzi disse che le frane e le alluvioni possono essere previste non solo osservando il cielo, ma anche spulciando negli archivi, perché sostanzialmente accadono sugli stessi luoghi. Per interesse personale accolsi quell’invito e tentai di censire i principali smottamenti della mia zona, la penisola sorrentino-amalfitana. Si tratta di un lavoro inedito e da approfondire, ma che mi ha permesso di risalire ai primi del Novecento, accertando che in un secolo, in un fazzoletto di terra, ci sono stati almeno 15 grandi eventi franosi, uno ogni 6-7 anni, per un totale di oltre 400 morti: dalla frana del 26 marzo 1924 a Vettica in cui morirono 61 persone a quella del 25 e 26 ottobre 1954 con 318 morti tra Salerno, Vietri sul Mare, Cava de’ Tirreni, Maiori, Minori e Tramonti, che poi si ripresentò ancora il 13 novembre a Maiori, dove morì almeno un bambino (Esposito et alii 2004); dallo scivolamento di una collina sull’abitato di Nerano, nel comune di Massa Lubrense, il 19 febbraio 1963[1] alla tragedia del 16 febbraio 1973 a Termini, nel medesimo comune, quando due famiglie, 10 persone, furono uccise da un crollo del monte San Costanzo; dalla frana del 10 gennaio 1997 a Pozzano (Castellammare di Stabia), quando venne travolta una casa e le quattro persone che vi abitavano, all’alluvione di Atrani del 10 settembre 2010, in cui perse la vita una ragazza, il cui corpo fu poi ritrovato dopo alcuni mesi al largo delle isole Eolie.
Nel racconto “La frana”, ambientato in Costiera Amalfitana, Marie Luise Kaschnitz (1992) scrive: «È successo verso mezzogiorno […] a quest’ora dietro la dorsale dei Monti Lattari, sotto l’effetto dei raggi del sole e secondo una misteriosa legge fisica, un pezzetto di montagna si era staccato di nuovo ed era venuto giù franando e nel suo cammino aveva trascinato con sé tutto quel che c’era: nespoli, pini, pergolati di limoni, la casa con la vòlta dipinta, la cucina e il ventaglio di piume di gallo, e con un fragore immenso aveva trascinato tutto in mare. E dopo non c’era più niente da vedere, se non una spaventosa ferita nel corpo florido della terra, una vasta scia di distruzione, che cominciava al di sopra della strada e si prolungava fino alla baia».
Abbiamo, dunque, molte pubblicazioni, anche non scientifiche, sul dissesto idrogeologico; sappiamo che frane, smottamenti, alluvioni e colate di fango avvengono sempre nelle medesime zone, eppure, nonostante questa gran mole di documenti, si tratta di «catastrofi rimosse», come le ha definite Walter Palmieri (2002). Sono eventi violenti e drammatici di cui conserviamo poca memoria e che, osservava già nel 1973 Antonio Cederna, riguardano il problema «più trascurato della politica italiana: la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica».
Tra i disastri idrogeologici più gravi che l’Italia abbia avuto negli ultimi decenni, quello avvenuto a Sarno nel 1998 ha certamente destato molta impressione a livello nazionale, eppure oggi in pochi saprebbero darne informazioni precise o saprebbero nominare le altre località delle province di Salerno, Avellino e Caserta coinvolte in quella tragedia. Ancora più oscuro, nel discorso pubblico, è quanto accaduto dopo, nei vent’anni che ci separano da quel fango e dai morti che seppellì: al di là dei residenti e dei tecnici, in pochi sanno quali misure di difesa e prevenzione siano state adottate e, soprattutto, in quali condizioni versino attualmente. Subito dopo il dramma di Sarno, la giornalista Lucia Annunziata, nativa di quella città, vi dedicò un instant-book, “La crepa” (1998), in cui, da osservatrice e conoscitrice della realtà sarnese, elencò le cause profonde della calamità: anni di politiche speculative, mancanza di manutenzione del suolo, assenza di previsione, promesse non mantenute, caos burocratico e ritardo nei soccorsi. Oggi, a due decenni di distanza, dovremmo compiere un’operazione intellettuale simile e valutare se qualcosa è cambiato, e in che misura.
Un primo passo è incrociare i saperi e ibridare gli approcci, come nel caso della tesi di laurea in Ingegneria Edile–Architettura di Ennio Molisse, discussa il 29 maggio 2020 presso l’università di Napoli “Federico II”, in cui c’è l’analisi degli interventi tecnico-fisici e orografico-ambientali del post-disastro, ma anche la considerazione degli aspetti storico-sociali e politico-economici che, tuttora, contribuiscono alla fragilità di quel territorio. Nonostante le opere di contenimento realizzate negli anni, infatti, l’area di Sarno resta a rischio perché è stata trascurata una visione d’insieme che riesca a sanare la “crepa” nella relazione tra montagna e comunità. Oggi, come mostrano le antropologie del dissesto, porre lo sguardo in quella frattura – umana e spaziale, politica e sociale – è un compito imprescindibile per chi produce forme di conoscenza critica sulla contemporaneità e che, in maniera sinergica con altri saperi, ambisce a contribuire alla costruzione di politiche pubbliche volte alla mitigazione dei rischi.
Riferimenti bibliografici
Almagià R., 1907: “Studi geografici sulle frane in Italia”, in «Memorie della Società Geografica Italiana», vol. XIII.
Almagià R., 1910: “Studi geografici sulle frane in Italia”, in «Memorie della Società Geografica Italiana», vol. XIV.
Annunziata L., 1998: “La crepa”, Rizzoli, Milano.
Antronico L., De Pascale F., Coscarelli R., Gullà G., 2020: “Landslide risk perception, social vulnerability and community resilience: The case study of Maierato (Calabria, southern Italy)”, in «International Journal of Disaster Risk Reduction», n. 46.
Barrios R. E., 2011: “Post-Katrina Neighborhood Recovery Planning”, in Dowty R. (a cura di), “New Orleans in Dynamics of Disaster: Lessons on Risk, Response and Recovery”, Earthscan, Sterling (Virginia, USA).
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La frana di Sarno del 1998 e cosa (non) è accaduto nei 22 anni successivi
di Ennio Molisse
Sommersi dal fango
Tra il 5 e il 6 maggio del 1998 circa 40 colate rapide di fango colpiscono i comuni di Sarno, Siano e Bracigliano, in provincia di Salerno, il comune di Quindici, in provincia di Avellino, e il comune di San Felice a Cancello, in provincia di Caserta: franano complessivamente a valle oltre 2 milioni di metri cubi di materiale e il bilancio finale è di 160 vittime, 178 case distrutte e oltre 450 danneggiate; la città più colpita è Sarno con 137 vittime e 387 case distrutte o danneggiate (Versace et all. 2008).
La tragedia è legata innanzitutto agli aspetti strutturali, stratigrafici e geologici che caratterizzano i monti di Sarno, che presentano aree di versante con pendenze variabili tra i 30° ed i 50° e un substrato roccioso calcareo che, in seguito alle varie eruzioni del Somma-Vesuvio, è stato ricoperto da prodotti piroclastici di caduta, caratterizzati da spessori molto variabili e da un’elevata porosità. Il 5 maggio del 1998, oltre alla particolare conformazione geomorfologica dei versanti, un ruolo significativo sull’innesco delle colate rapide di fango lo hanno le precipitazioni registrate nelle ore, nei giorni e nei mesi precedenti: la pioggia che si infiltra nelle coltri piroclastiche porta, infatti, ad un aumento del contenuto volumetrico di acqua e ad una significativa riduzione dei livelli di suzione[2] e dell’aliquota di resistenza del terreno generata dalla suzione stessa, con conseguente trasporto di materiale a valle (Reder 2016).
Accanto a tutto ciò, però, vanno considerati anche due fattori antropici che hanno contribuito a trasformare quel fenomeno naturale in una catastrofe: da un lato l’espansione urbana irrazionale e lo sfrenato consumo di suolo che hanno profondamente e velocemente modificato il territorio di Sarno, soprattutto nella seconda metà del Novecento, e, dall’altro, i canali di impluvio a valle che avevano perso la loro principale funzionalità, dal momento che la costruzione di case e di strade nei loro alvei e sulle loro sponde ne compromettevano il corretto utilizzo (Chivazzo et all. 2018).
Uscire dal fango, e poi?
In seguito alla dichiarazione dello stato di emergenza mediante il D.P.C.M. 8 maggio 1998 e alla nomina di una struttura commissariale a Sarno e negli altri comuni colpiti, per prima cosa viene redatta una “Carta del Rischio Residuo”, con la relativa delimitazione delle aree a rischio mediante una “Linea Rossa”, e vengono definite una soglia pluviometrica di preallarme, finalizzata all’attivazione dei mezzi e delle unità di soccorso, e una di allarme per l’evacuazione della popolazione (Cascini 2005).
Successivamente vengono poi realizzate molteplici opere di mitigazione del rischio e viene messo a punto in corso d’opera un modello di intervento che, attraverso progressivi aggiustamenti e continui confronti con tecnici e specialisti, porta alla definizione di un “Modello Sarno”, per indicare la particolare gestione dell’emergenza e per individuare alcune delle opere più rappresentative eseguite (Versace et all. 2008).
Gli elementi principali che caratterizzano il sistema di gestione dell’emergenza possono essere così sintetizzati:
In merito agli interventi strutturali, con il “Modello Sarno” si decide invece di ricorrere ad interventi integrati con opere di difesa attiva, ovvero sistemazione dei versanti mediante tecniche di ingegneria naturalistica, e opere di difesa passiva, quali briglie, vasche di accumulo, opere di deviazione, valli trasversali e canalizzazioni: gli interventi attivi sono infatti finalizzati a limitare l’innesco di fenomeni di primo distacco, mentre gli interventi passivi hanno il compito di ridurre le conseguenze di eventuali colate rapide di fango (Versace et all. 2008).
Per evitare la prossima “alluvione”
Come definito da una legge regionale del 2004[5], il 31 dicembre dello stesso anno cessano le attribuzioni di commissario delegato in capo al Presidente della regione Campania, e i compiti e le funzioni della struttura commissariale vengono trasferiti alla nascente Agenzia Regionale Campana per la Difesa del Suolo: termina di fatto lo “stato di emergenza”.
I poteri straordinari sicuramente hanno favorito procedure più veloci ed efficaci per il superamento della fase emergenziale, ma l’aver prolungato negli anni lo stato di emergenza ha portato, da un lato ad un potenziamento della struttura commissariale, con un notevole approfondimento delle conoscenze tecnico-scientifiche e la messa a punto di un vero e proprio modello per la mitigazione del rischio, dall’altro lato ha favorito un’atrofizzazione dei poteri ordinari delle amministrazioni comunali e provinciali, piuttosto che la crescita delle loro capacità operative su tematiche così delicate e importanti (De Nardo 2004). Una situazione del genere ha influito, in modo particolare, sulla pianificazione territoriale, dal momento che i comuni interessati si approcciano al governo del territorio senza avere chiare le strategie, le scelte e gli obiettivi da perseguire per far fronte alle esigenze di un’area ormai classificata come “a rischio” (De Paola 2004).
Inoltre, dopo più di vent’anni dalla frana del maggio del 1998, nonostante la realizzazione del “Modello Sarno”, le ingenti risorse economiche investite nella fase emergenziale e le opere di mitigazione del rischio realizzate, molte sono le criticità che interessano la montagna di Sarno.
Partendo proprio dal “Modello Sarno” descritto, la scelta di ricostruire nelle stesse aree colpite è strettamente connessa alla presenza delle opere di mitigazione del rischio. Ciò significa che, per garantire la sicurezza e l’incolumità dei cittadini, non è sufficiente il fatto che queste opere siano state correttamente progettate e costruite ma devono anche essere tenute in un buono stato di conservazione: la manutenzione costituisce però la prima criticità del “Modello Sarno”. I canaloni e le vasche rappresentano, infatti, i principali recettori delle acque meteoriche provenienti dalla montagna; tali acque trasportano a valle anche materiali solidi che, se non vengono costantemente rimossi, favoriscono la crescita della vegetazione. Già prima dello scioglimento della struttura commissariale, si esprimevano seri dubbi circa la manutenzione degli interventi strutturali. Le maggiori problematiche evidenziate riguardavano la competenza delle attività di manutenzione al termine dello stato di emergenza, la ripetitività con cui bisognava eseguire le stesse, i siti dove depositare il materiale rimosso ma, soprattutto, i fondi necessari. A questo si aggiunge che, dopo più di vent’anni, alcune opere risultano ancora incomplete.
Un ulteriore problema da non sottovalutare è il progressivo abbandono della montagna, che, da un lato sta portando ad una riduzione significativa della pressione esercitata dall’uomo sulle risorse naturali e, in modo particolare, sulle aree boschive, ma dall’altro vede svanire gli effetti positivi che la sua presenza ha avuto nel corso dei secoli: basti pensare alle sistemazioni idraulico-agrarie, alla manutenzione costante del bosco, delle strade e dei sentieri, alla salvaguardia del paesaggio e, soprattutto, al presidio del territorio, costituito dai contadini e dalle comunità rurali. I terrazzamenti, ad esempio, oltre ad agevolare le attività agricole e a rappresentare un importante carattere identificativo del paesaggio tradizionale, riducono significativamente l’erosione superficiale e la velocità di ruscellamento dell’acqua, che viene convogliata attraverso una rete di scoline e di fossi negli impluvi e nei canali.
La scomparsa del presidio costituito dagli agricoltori e la mancata manutenzione del territorio ha, inoltre, un effetto significativo sull’accessibilità, con la scomparsa dei vecchi sentieri e l’impossibilità di svolgere tutte le attività di indagine e di monitoraggio del territorio che si rendono necessarie, e, in modo particolare, sugli incendi boschivi che, oltre all’immissione in atmosfera di grandi quantitativi di CO2 e alla distruzione dell’ecosistema naturale, portano alla formazione di uno strato superficiale impermeabile e al conseguente trasporto a valle di detriti in occasione di forti piogge.
Per la prevenzione degli incendi e la riduzione dei relativi effetti, l’azione principale da perseguire sarebbe di ridurre la quantità di combustibile mediante ripulitura del cespugliame invadente, sfoltimenti e diradamenti. Questo conferirebbe alle aree boschive una maggiore resistenza all’infiammabilità, una minore facilità di propagazione del fuoco al loro interno e una più facile percorribilità del bosco in caso di intervento volto a spegnere le fiamme (Iovino 2007).
La fragilità attuale
Il 20 settembre del 2019 un incendio boschivo di vaste dimensioni e di origine dolosa interessa la collina del Saretto, alle cui pendici sorge il nucleo storico del comune di Sarno. Alimentate dal forte vento, le fiamme arrivano addirittura a minacciare le abitazioni a valle e vengono immediatamente predisposte con ordinanza del sindaco l’evacuazione dei cittadini residenti a ridosso della zona pedemontana e la chiusura di tutti gli edifici scolastici di ogni ordine e grado. Alla paura e allo sgomento della popolazione, legati al tragico ricordo degli eventi del maggio 1998, ben presto si aggiunge la rabbia per aver identificato quali possibili autori del gesto giovani ragazzi sarnesi.
Il rischio idrogeologico è elevato a causa delle pendenze dei versanti molto accentuate, della distruzione del manto erboso con incremento dei fenomeni di ruscellamento e di erosione superficiale, dell’imminente arrivo della stagione autunnale e delle piogge; l’amministrazione comunale è conscia di tali criticità, per cui chiede l’attivazione dello stato di emergenza e l’istituzione di una cabina di regia con tutti gli enti preposti, al fine di predisporre interventi urgenti di messa in sicurezza del territorio. Le attività di sopralluogo vengono ultimate dopo appena tre giorni e in tempi rapidissimi vengono definiti gli interventi da realizzare e stanziati i fondi.
Tuttavia, nonostante la celerità con cui vengono avviati gli interventi di messa in sicurezza e nonostante l’avanzato stato dei lavori e, addirittura, la messa a punto di una variante che preveda ulteriori interventi integrativi, nella notte tra il 3 e il 4 novembre l’incubo ripiomba sulla città di Sarno. Un violento nubifragio colpisce l’area interessata dall’incendio e notevoli quantità di terreno, miste ad acqua e ad altro materiale residuale del rogo, si riversano sul centro abitato. Il 5 novembre, inoltre, considerato l’avviso regionale di avverse condizioni meteorologiche diramato dalla Protezione Civile e la relativa ordinanza del sindaco, i cittadini a ridosso della zona pedemontana sono costretti nuovamente ad abbandonare le proprie abitazioni.
Le opere già realizzate al momento del nubifragio hanno avuto sicuramente un ruolo significativo e hanno notevolmente smorzato gli effetti di un evento che avrebbe potuto provocare molti più danni. Gli interventi strutturali, dunque, svolgono un ruolo importante nella mitigazione del rischio, eppure viene da chiedersi quanto tempo occorrerà prima che le opere realizzate vengano nuovamente colmate dai detriti e dalla vegetazione; chi dovrà occuparsi del monitoraggio e della manutenzione costante, viste anche le criticità riscontrate con lo stesso “Modello Sarno”; perché l’esposizione al rischio idrogeologico a Sarno continua ad essere così elevato, sebbene due decenni fa vi sia accaduta una tragedia immane. Inoltre, è lecito chiedersi perché si affrontino le tematiche relative al dissesto idrogeologico solo quando il rischio è incombente, quando invece sarebbe logico ed opportuno affrontarle in “tempo di pace”, così da superare la logica emergenziale per approcciarsi ad un nuovo modello di gestione del territorio finalizzato alla manutenzione sistematica e programmata del territorio.
In altre parole, di generazione in generazione si rinnovano gli interrogativi di sempre, ma con un’aggravante, quella di illudersi che si sia compiuto qualcosa, che si sia agito verso la sicurezza o la mitigazione del rischio, quando, invece, la vulnerabilità sociale non è stata contemplata, l’esposizione del territorio risulta comunque elevata e la fragilità complessiva appare addirittura aggravata.
Settembre 2020, il fuoco e il fango riportano la paura
Dal 13 al 17 settembre 2020 un vasto incendio ha nuovamente distrutto ettari di bosco, partendo dal Parco del Voscone con la pineta quasi interamente distrutta, passando per il Saretto, già duramente colpito dall’incendio dello scorso anno, e arrivando fino ad Episcopio dove ha interessato diverse aree di versante franate nel maggio ’98. Preoccupano non poco le criticità legate all’imminente arrivo della stagione autunnale e delle piogge, che potrebbero innescare fenomeni simili a quelli dello scorso anno, il tutto aggravato dal precario stato di manutenzione attuale delle vasche e dei canali.
Il problema, però, è che stavolta non c’è stato tempo per l’attivazione dello “stato di emergenza”, per le attività di sopralluogo, per la realizzazione di qualsivoglia tipo di intervento: il 27 settembre, dopo appena dieci giorni, un violento nubifragio si è abbattuto sulla città di Sarno e, inesorabilmente, si è ripetuta la stessa dinamica del 2019, con alcune strade del centro storico e di via Bracigliano invase dai detriti trasportati a valle e numerose famiglie costrette ad abbandonare le loro abitazioni, a seguito di un’ordinanza del sindaco.
Ancora una volta, quindi, il termine “emergenza” ha perso la sua accezione di imprevedibilità e di eccezionalità, perché, al contrario, è divenuto progressivamente condizione ordinaria con cui confrontarsi: l’emergenza è diventata la norma e si è fatta norma, nel senso che è sia un fenomeno ordinario, sia un dispositivo che costruisce procedure, azioni e discorsi. Questa particolare declinazione di emergenza è la stabile condizione di vita con cui il territorio e i suoi abitanti si confrontano da oltre vent’anni, una speciale forma di governo in grado di riprodursi e perpetuarsi, con una conseguenza sociale di non poco conto: localmente si convive con l’idea che questo stato delle cose sia ormai percepito quasi come immutabile, quasi che la colata di fango debba fatalmente accadere e nulla possa essere fatto per impedirlo o per ridurne il rischio e mitigarne gli effetti.
In nome della sicurezza, che generalmente viene invocata solo in caso di allarme, ci auguriamo che a Sarno il territorio torni ad essere governato attraverso la gestione ordinaria, con lo scopo di ridurre il senso di incertezza collettiva e le sospensioni del diritto che ogni “stato di emergenza” porta con sé. L’obiettivo del “tempo di pace” è evitare che si arrivi all’urgenza della necessità e, a Sarno, ciò significa ricucire e ristabilire una nuova armonia tra gli abitanti e la montagna, coltivando uno sguardo che, dalla prevenzione alla sostenibilità, sia in grado di allungarsi nel tempo lungo del futuro.
Riferimenti bibliografici
Note
[1] Quella frana non ebbe, per fortuna, conseguenze irreparabili e l’abitato sottostante, oggi, è protetto da una pineta piantata negli anni successivi, quasi si trattasse di un “monumento naturale” di cui, tuttavia, nessuno più serba il ricordo e, dunque, il monito.
[2] Per “suzione” si intende quella grandezza che misura l’energia libera dell’acqua di porosità, esprimibile in termini di pressione.
[3] Per “lavoro ordinario” si intende l’installazione della strumentazione finalizzata al monitoraggio territoriale, l’esecuzione di indagini in sito, l’individuazione di scenari di rischio.
[4] Questo tipo di emergenza si attiva in caso di superamento della soglia pluviometrica di attenzione o di segnalazione di dissesti del territorio, così da intervenire con la massima tempestività.
[5] Il riferimento è all’articolo 5, comma 5, della Legge Regionale 12 novembre 2004, n. 8 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge Finanziaria regionale 2004”.
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