Fine del futuro?
Per la verità, prima del coronavirus, non si può dire che il futuro fosse particolarmente in auge. Che fine ha fatto il futuro? era stato l’icastico titolo italiano di un libro di Marc Augé (2009) che aveva dato l’avvio, non a caso, a una ricca e variegata letteratura filosofica, sociologica, antropologica, quasi sempre concorde nel mostrare che il futuro era scomparso dal nostro orizzonte, quasi dalle nostre attese, dalla nostra immaginazione, dai nostri sogni, dalle nostre aspettative pubbliche e private. La frase ricorrente, per lunghi anni prima della pandemia, secondo cui «i giovani non hanno futuro» descriveva una situazione di incertezza e di insicurezza e suonava come una denuncia dell’incapacità di progettare quello che un tempo si chiamava «l’avvenire», e come impossibilità di immaginare e pensare quello che sarebbe accaduto domani, se mai un domani ci potesse essere. La fine delle utopie novecentesche, che avevano immaginato il «sole dell’avvenire», aveva fatto tramontare, insieme col secolo, anche l’idea.
Da almeno tre decenni – soprattutto dopo il crollo del Muro, la fine dell’Urss e della guerra fredda – il presente era diventato egemonico: la cultura dell’immanenza negava il futuro. Il tempo come principio di speranza sembrava essere scomparso dalle nostre discussioni, dalle nostre coscienze e dalle nostre prospettive politiche. Si affermava il fatto compiuto, inesorabile, schiacciante, il cui sorgere fa sparire il passato e satura l’immaginazione del futuro. Tutto era da consumare subito, da non pensare. Si affermavano formule che parlavano di fine della storia, di globalizzazione e legge del mercato, di fenomeni su cui era impossibile e inutile avere la pretesa di intervenire. Il nuovo ordine planetario non generava uno spazio pubblico globale, una polis e un’agorà in cui l’opinione pubblica potesse realmente formarsi. In questo scenario, i media finivano con lo svolgere il ruolo che un tempo spettava alle cosmologie.
All’affermazione del predominio del presente corrispondeva, nel nostro passato più recente, la mitologia dell’eternità, della gioventù perenne; il ribaltamento di quanto aveva caratterizzato il modello pre-moderno. Nelle società precedenti, basate sul ciclo del ritorno, la vita dell’individuo era stata scandita in una sequenza in cui ruoli, spazi e compiti delle diverse età erano stati riconosciuti e valorizzati. I riti di passaggio facevano nascere un nuovo individuo. La vecchiaia era vista come una rinascita, l’inaugurazione di una fase nuova cui venivano attribuiti compiti «precorritori»: non equivaleva all’attesa della morte. Ora, invece, l’illusione ossessiva di un corpo perennemente giovane, fuori dal tempo, cancellava contestualmente sia la giovinezza che la vecchiaia. Analisi crude e dolenti come quelle di Jean Améry (2013) hanno fatto comprendere come la modernità avesse generato disperazione, solitudine, tolto senso al tempo. Il tempo di cui fino a ieri ci accorgevamo invecchiando non era solo inafferrabile; era anche un grumo di insensatezze, si faceva amaramente scherno di qualsiasi precisione intellettuale che si volesse perseguire. Il passato c’era e restava, come un negativo da cui prendere le distanze. Il presente e il futuro invece perdevano il loro carattere temporale. E in un mondo in cui i vecchi tentavano di rubare la scena ai giovani, questi ultimi smettevano di immaginare il futuro. Rimanevano ostaggio di una sorta di tirannia del presente, determinata dalla perdita di memoria e dalla fine della gioia per il progetto e la prospettiva. La vecchiaia in qualche modo veniva rimossa o vista come un ostacolo. Era diffuso un amaro pessimismo, in cui il tempo vissuto portava alla solitudine e alla chiusura, nel tentativo di occultare il dolore, la malattia, la morte. In definitiva, il futuro fino a ieri sembrava esistere soltanto negli oroscopi e nei film e nei romanzi di fantascienza.
Il tempo della pandemia ci fa vedere adesso l’enorme rischio di questa rimozione: quando si teme e si celebra, si lamenta e si decreta la fine del futuro, esso torna come rimosso, rimorso, ansia, terrore, paura, fuga.
Ottimismi e pessimismi.
Da almeno un ventennio, nonostante la grande cecità di cui parla Amitav Ghosh (2017), molti studiosi segnalavano le tre minacce che incombevano sul nostro pianeta: il nucleare, l’emergenza ambientale e la manipolazione genetica della nostra specie. Era sempre più diffuso il timore che non ci si potesse fidare dell’uomo e della potenza tecnologica che aveva raggiunto su scala globale, nel campo della manipolazione biologica, in quello delle tecnologie informatiche e, non da ultimo, in quello della produzione militare e del moltiplicarsi delle armi nucleari.
Il tempo presente proponeva per il futuro scenari divaricati in direzioni opposte. Si passava dalle concezioni pessimistiche e apocalittiche che parlavano di dittatura digitale, autodistruzione dell’umanità e autoestinzione della nostra specie, alle visioni ottimistiche, che preannunciavano una vita postbiologica ed extraterrestre dei transumanisti.
Per i pessimisti la «fine» era già avvenuta e noi ne stavamo soltanto prendendo atto: nel 2100 – a sentire tanti cupi pronostici – saremo in nove miliardi su un pianeta rimpicciolito dall’avanzata dei mari, barricati in città attraversate da ondate roventi, inseguiti da malattie tropicali che allargheranno il loro raggio di azione, con milioni di persone in fuga dalle pianure invase dalle acque o inaridite. Siamo vicini al punto di non ritorno. La rapina costante dell’ambiente, l’effetto serra, l’insufficienza dei prodotti alimentari, l’avvelenamento ambientale, l’instabilità finanziaria e le crisi ricorrenti di un sistema dominato su scala globale da banche gigantesche, incestuose, burocratiche; il grande fratello che ci spia, il terrorismo: secondo molti autori il mondo era già entrato nella sua fase autodistruttiva. Il senso della fine si era già diffuso nel cinema e nelle letterature al volgere del secolo scorso, con zombie, vampiri, alieni che invadevano la Terra e massacravano i suoi abitanti. L’intero pianeta distrutto, fatto esplodere, cancellato a seguito di cadute di asteroidi, calamità devastanti, temperature glaciali. Eravamo già entrati, con l’immaginazione, in un mondo dove tutto era possibile: un mondo senza limiti di ordine biologico, religioso, ambientale, sessuale, morale. Le biotecnologie avevano messo in crisi convenzioni di durata millenaria.
Per gli ottimisti, al contrario, avremmo avuto nuovi cibi, crescenti disponibilità alimentari, case confortevoli, acque salubri, tempo libero illimitato. Le possibilità di un futuro radioso si facevano sempre più concrete grazie alle continue scoperte della scienza e all’affermarsi di ingegneria genetica e biotecnologie. Un futuro in cui donne e uomini avrebbero potuto essere sempre più longevi, sempre meno malati, perennemente giovani e quasi immortali, ci veniva proposto quotidianamente da esperti, futurologi, scienziati. Secondo il fisico americano Michio Kaku (2012), nel 2100 il mondo diventerà una sorta di paradiso. «Vivremo centinaia di anni e i nostri corpi, grazie all’ingegneria genetica e ad arti bionici del tutto simili a quelli veri, avranno sempre 25 anni. Case ipercomode, riscaldate, nessuno sarà costretto a lavorare. Energie illimitate e sapere crescente. L’ingegneria informatica e quella biologica ci pongono di fronte a un uomo in grado di risolvere antiche dipendenze, un uomo completamente nuovo, più distante da noi di quanto l’Homo sapiens lo fosse dai primi ominidi».
Il limite comune di entrambi questi scenari – e oggi il coronavirus ce ne dà una prova inconfutabile – sta nel fatto che in queste previsioni scientifiche si isola di solito un elemento e lo si proietta nel futuro separandolo da tutte le altre variabili. Per esempio, un progressivo sviluppo della produzione non tiene nel giusto conto i danni che potrebbe comportare per la comunità. La nascita di una sorta di superuomo, bello e mai ammalato, ignora gli effetti del controllo totale e dei rischi da catastrofe atomica. La sconfitta delle malattie e l’ottimismo di trovare un elisir di lunga vita non considerano appunto l’emergere di nuovi virus, di inedite forme di contagio, anche con il ritorno di antiche epidemie.
Il prevedibile, decontestualizzato e canalizzato in una concezione positiva o negativa del futuro, si presta a travalicare nell’imprevedibile, che mette in scacco le aspettative e genera disincanto e disillusione
Prevedibilità e imprevedibilità.
Questo confine tra il prevedibile e l’imprevedibile è assai vago. Ognuno di noi può raccontare una quantità di casi, sia nella sua esistenza individuale che in quella della società in cui è vissuto o del mondo intero, che hanno smentito le sue previsioni.
Se con la memoria vado alla mia infanzia e penso a quello che immaginavo per la mia vita di adulto e considero la vita e le aspettative dei miei compagni di gioco e di quelli più grandi, debbo constatare il trionfo dell’imponderabile, quasi la presenza di un fato che a caso genera successi e insuccessi, dolori e delusioni, un mondo di macerie e di rovine, quasi sempre indipendenti dalla volontà e dalle responsabilità del singolo.
Da bambino, nel paese in cui sono cresciuto negli anni Cinquanta, vedevo i miei compagni di gioco e di scuola partire per il Canada o per le città del Nord Italia. Un lungo lutto e un lento cordoglio avvolgevano le persone che partivano e che restavano, ma il crogiuolo di dolore e di sofferenza era attenuato dalla speranza che chi se ne andava avrebbe fatto fortuna e poi sarebbe tornato. Ci sono voluti anni e anni per capire che quelle porte chiuse non si sarebbero mai più riaperte e che le strade vuote sarebbero rimaste tali per sempre. Se dalla sfera personale passo a quella collettiva, sociale, fino a considerare la storia del mondo, trovo altri esempi di avvenimenti e fatti inimmaginabili e impensabili.
Una volta Maurice Aymard mi ha raccontato dell’incontro di un gruppo di storici, economisti, sociologi e studiosi, riuniti a Parigi, all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, per discutere sul futuro dell’Urss e dei paesi dell’Est. Mentre il blocco sovietico mostrava segni di apertura e di mobilità, l’Occidente s’interrogava sulla necessità di una nuova azione politica, di iniziative e atteggiamenti diversi dal passato. La riunione era ancora ai preliminari quando qualcuno, tutto trafelato ed emozionato, bussò alla porta per comunicare che era crollato il Muro di Berlino. Quella riunione diventava improvvisamente inutile e inattuale. Il mondo era andato in una direzione completamente diversa da quello che si era immaginato ancora pochi secondi prima.
«Povero Pino mio – piangeva una mia cugina –, perché non ti sei fermato, come facevi sempre, dalla vicina per il caffè. Bastava un secondo e non andavi a finire con la macchina contro quel camion e ancora saresti stato vivo». E chissà quante volte ci siamo salvati perché, invece, siamo partiti un momento prima o un’ora dopo. Quest’ultimo esempio ci pone di fronte all’imprevedibilità della vita. Sappiamo che basta un incontro, un attimo, un incidente perché la nostra esistenza vada in una direzione anziché in ipotetiche altre. È il mistero e l’imponderabile della vita, che la rende anche bella, per cui si può parlare di caso, di destino, di intervento o non intervento divino.
Ma la vicenda personale e quella storica che ho raccontato erano davvero imprevedibili? O quell’imprevedibilità non è che il frutto di mie speranze, aspettative, attese, sogni che hanno ostacolato una lucida analisi di quello che sarebbe potuto accadere? Lo svuotamento e lo spopolamento dei paesi è davvero una catastrofe imprevista e imprevedibile di cui si prendeva coscienza col passare degli anni? O non era invece già possibile prevedere che quell’esodo di massa e ininterrotto avrebbe finito con lo svuotare campagne e paesi, avrebbe finito per erodere economie e culture e dilatare il mondo di origine in un altrove ignoto?
E così si può pensare per il crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Davvero non c’erano segni, dati, elementi, venti, spinte che potevano fare pensare a un’implosione, una dissoluzione, un crollo, che forse nessuno voleva vedere, sapeva vedere perché adoperava uno sguardo puntato sulle apparenze e non sulle scosse sotterranee?
Faccio un altro esempio. Nella notte tra il 6 e 7 marzo del 2005, una frana alimentata da ripetute piogge provoca l’abbandono dell’abitato di Cavallerizzo, comunità calabro-albanese in provincia di Cosenza (Teti 2015a; 2017). Che l’abitato fosse ubicato su una frana che periodicamente si svegliava è attestato fin dal popolamento ad opera di esuli albanesi nel XVI secolo. Il culto di san Giorgio che sconfigge il drago (una metafora della frana) e la grande devozione per il patrono che più volte salva il paese e i suoi abitanti durante spostamenti del terreno attestano una conoscenza e una memoria di un rischio immanente. Per secoli l’abitato resiste alle ripetute urla del drago: poi, in anni recenti, cominciano il disboscamento avventato, l’occultamento dei corsi delle acque, la costruzione di abitazioni in cemento armato proprio nell’area più franosa.
Più che sperare in un nuovo miracolo del santo patrono, bisognava interpretare attentamente i miracoli del passato. Si sarebbero dovute decifrare le avvertenze che da esso arrivavano. Bisognava prendere sul serio il mito, il culto, l’intervento miracoloso del santo e le minacce e le avvertenze del drago. Un certo rapporto equilibrato con il territorio veniva totalmente eroso e stravolto e allora accadeva quanto si temeva e si scongiurava, ma che invece era molto prevedibile.
Prendiamo un ultimo caso. La conclamata impossibilità di prevedere un terremoto. Ripenso a quello dell’Aquila del 2009, che ha avuto effetti rovinosi oltre a un grande valore simbolico (Teti 2012). L’affermarsi di un’economia basata sulle catastrofi, sulle devastazioni del paesaggio, sugli sventramenti di colline e marine, sull’inquinamento dei fondali del mare e delle montagne, sul cinismo e sul senso degli affari di costruttori, cementificatori, imprenditori, cricche: tutto questo è diventato una miscela esplosiva, un miscuglio di elementi arcaici e postmoderni, di disattenzioni e di attenzioni interessate, che spiega perché è potuto accadere l’evento dell’Aquila. La telefonata, a pochi istanti dal sisma, tra i due uomini di affari, nel suo cinismo, è illuminante per capire cosa sia diventata, nell’Italia degli ultimi decenni, la logica dello sviluppo che si è affermata: l’immoralità dilagante, la corruzione e le tangenti che sono pratiche ordinarie e abituali, l’indifferenza, il silenzio e l’assuefazione delle popolazioni dinnanzi al saccheggio del territorio; le complicità, i piccoli interessi personali, l’attesa – puntualmente soddisfatta – di ripetuti condoni, diseducativi e devastanti; l’assenza pressoché totale di forze politiche e culturali in grado di porre con forza il problema della cura e della salvaguardia del territorio. Il disastro, ha scritto B.-H. Lévy (2009) riferendosi al terremoto dell’Aquila e dell’Abruzzo, non ha colpito alla cieca. Ha scelto i propri bersagli e ne ha risparmiati altri. «Se gli edifici sono crollati è perché erano costruiti male. Se erano costruiti male, è perché erano stati fabbricati, molto spesso, con calcestruzzo composto di un miscuglio di sabbia, pietrisco e cemento dosati male».
Come è noto, il caso dell’Aquila è tutt’altro che isolato. Il partito del cemento e dei palazzinari prepara, in Italia come in tante altre parti del mondo, un presente di rovine, le rovine del presente. Per quanto ci riguarda, ci siamo a lungo vantati di abitare nel Bel Paese, che si sarebbe magicamente mantenuto tale, sempre evocabile, e abbiamo raccontato favole, mentre lo distruggevamo. Né tutto questo è avvenuto solo da noi. Orhan Pamuk si è raccontato mentre percorreva le strade di Istanbul, colpita da un devastante terremoto alla fine degli anni novanta, per prestare soccorso alle vittime e per osservare gli effetti del sisma: «Molte persone vagavano in uno stato confusionale, su e giù per le strade: anche noi, insieme a loro, abbiamo camminato tra edifici crollati, rovesciati e polverizzati, automobili rimaste sotto le macerie, muri, pali elettrici e minareti abbattuti, calpestando pezzi di cemento, vetri rotti e grovigli di fili elettrici e del telefono. […] Ho osservato a lungo gli oggetti degli interni dei palazzi ripiegati su un fianco, o crollati per metà, o puntellati dall’edificio accanto, alcuni con i tetti protesi contro le case dirimpetto e le facciate in rovina come modellini di una città-giocattolo rimescolata da un bambino capriccioso. […] La vista di questi interni, da cui non riuscivo a distogliere gli occhi, ci faceva capire quanto fosse fragile la vita dell’uomo, quanto fosse indifesa di fronte al male. Ci spingeva a provare che la nostra esistenza dipendeva dalle decisioni di uomini che perlopiù disprezzavamo. Tutti quegli osceni palazzinari di cui andavamo lamentandoci da anni, le municipalità annaspanti nella corruzione, i costruttori senza principi né regole e i politici imbroglioni erano stati prodotti da noi, erano parte di noi, e il nostro disprezzo non ci aveva minimamente protetti dalle loro malefatte» (Pamuk 2008, pp. 106-7).
Insomma: le rovine, le calamità, le catastrofi non costituiscono una sorpresa, un incidente, ma vengono preannunciate, attese, temute, minacciate, fanno parte integrante di quello che la tradizione occidentale pensa di sé stessa. Il motivo delle rovine e quello dell’Apocalisse hanno ormai invaso la letteratura, l’arte, la video art, i fumetti, la fotografia, il cinema, la riflessione archeologica e quella antropologica. A rendere attuali e familiari le rovine ci pensano quotidianamente la cronaca, la vita, le guerre, i bombardamenti, le devastazioni dei fondamentalisti, le catastrofi naturali. La fine del mondo sembra essere all’ordine del giorno, nei telegiornali, negli oroscopi, nelle previsioni catastrofiche, nella realtà (Teti 2017).
Se una qualche possibilità di previsione esiste, non bisogna forse guardare al futuro ma piuttosto al passato, alla storia, alle memorie scritte e orali, al paesaggio. La Calabria, terra di sismi, porta scritta nel suo paesaggio, nei modi di dire, nelle fonti e nelle memorie scritte, nelle tradizioni orali, nella toponomastica, nei riti, nei culti, nelle processioni una storia frequente e ininterrotta di terremoti. Augusto Placanica, uno degli storici più importanti della seconda metà del Novecento, proprio studiando, per decenni e con fonti inedite, il «terribile flagello» del 1783, ha scritto pagine indimenticabili sulla centralità che i terremoti hanno avuto sul paesaggio, l’organizzazione dello spazio, la mentalità, le forme di percezione e autorappresentazione delle genti di Calabria. Le sue riflessioni sulla catastrofe, la paura della fine del mondo, l’Apocalisse e le apocalissi, meritano, certo, di stare accanto alle più famose e celebri pagine della letteratura storica e filosofica apocalittica (Placanica 1985; 1990; 1993). Un lavoro prezioso, con illuminanti avvertenze, di cui le élites politiche e intellettuali, ma anche amministratori e popolazioni della sua terra, non hanno fatto tesoro, incapaci di elaborare una cultura del rischio e sempre tesi al comodo e interessato intervento emergenziale.
Non si può dire che in questo o in quel luogo avverrà un terremoto, ma se in quel luogo si verificano da anni significative e ripetute scosse, se in quel luogo si celebra un santo che in passato ha limitato i danni di un sisma catastrofico, se gli anziani ricordano ancora spostamenti di colline e alberi a seguito di uno smottamento, se le cronache degli ultimi quattro secoli registrano decine di eventi tellurici più o meno significativi, se i ruderi, i reperti, le rovine, gli edifici in piedi e restaurati attestano una serie di scosse, allora c’è da pensare che un terremoto possa ripetersi con buone probabilità. E sulla frequenza e la «prevedibilità», sull’impatto degli eventi naturali sulla società, sulle inadeguate, incompiute, interessate opere di intervento dopo i terremoti, studiosi come Emanuela Guidoboni (2013, insieme a Gianluca Valensise; Guidoboni, Mulargia, Teti 2015) hanno lasciato scritti fondamentali e suggerimenti rimasti inascoltati. E c’è da immaginare che, se in quella zona rossa considerata fortemente sismica si costruiscono case a più piani senza criteri antisismici, i danni potrebbero essere devastanti. Se si costruiscono abitazioni lungo il letto del fiume che ha avuto una storia nota di esondazioni e di straripamenti, che hanno fatto delle vittime, c’è da pensare che un’alluvione potente quanto prima arriverà.
Più che di retoriche profezie, di rituali sterili, di commemorazioni poco convinte, ci sarebbe stato bisogno di memoria del passato, di attenzione alla storia e ai segni dei luoghi, di capacità di ascolto, di opere di prevenzione, cura, messa in sicurezza del territorio e degli abitati. E, invece, la terra del sisma è stata il luogo di ripetute, continue, «prevedibili» calamità e catastrofi. Dopo una o due generazioni, le popolazioni, in assenza di strategie del ricordo e di una mirata organizzazione della memoria e anche della paura, con conseguenti e coerenti iniziative concrete, dimenticavano e rimuovevano un passato che, comunque, meritava ascolto e risposte.
(il testo fin qui riportato è un estratto dal volume Prevedere l'imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus che pubblichiamo dietro concessione dell'autore Vito Teti e di Donzelli editore)
Il libro. Il pamphlet Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus di Vito Teti (Donzelli Editore, 2020), pone il nostro tempo sotto osservazione, su una specie di complicato crinale della storia, tra passato e tradizione, modernità e futuro. Il quesito di fondo, che sottende il testo è: si può prevedere anche ciò che sembra imprevedibile? Il Sapiens ha abituato la storia a scarti inattesi, con la sua capacità di pensare l’impensabile, di costruire miti inossidabili, fondere sacralità e religione; immaginare Apocalissi. Come affrontare il nodo della previsione delle catastrofi? Un dato di partenza, secondo l’antropologo Vito Teti, sarebbe il riconoscimento del ruolo che compete al passato, da interrogare, interpretare, pur “senza inautentiche nostalgie“. Un approccio plausibile potrebbe essere quello di decifrare le avvertenze che giungono dal passato, per prevedere ciò che sembra imprevedibile: la conoscenza dei luoghi e della storia potrebbe contenere informazioni preziose, come nel caso dei sismi, considerando la prevedibile ripetizione degli eventi, in certi territori. In molti casi, i luoghi ne conservano memoria nei ricordi degli anziani o, più indietro nel tempo, nelle storie di santi che, con i loro miracoli, avrebbero ridotto o limitato i danni di un sisma catastrofico. Oggi, ancora, più che sperare nel miracolo di un nuovo santo o di nuove manifestazioni della Provvidenza, dovremmo imparare a fare un uso scientifico della conoscenza, favorendo il dialogo proficuo tra i saperi disciplinari, oltre gli steccati. La decifrazione delle avvertenze pone le catastrofi sul piano più accessibile della prevedibilità. In pochi mesi, è maturata la consapevolezza del superamento conclamato di un lungo periodo di illusioni e di presunte onnipotenze; è crollata l’illusione diffusa che il benessere ci avesse emancipati dal rischio di guerre, pestilenze e fame. L’apparizione rivelatoria della catastrofe ha avuto l’esito di ricapitolare, quasi, tutte le lezioni che non abbiamo voluto apprendere. A partire dalla rimozione illusoria del senso del limite: pericolosa e infondata. L’Occidente è in fretta transitato dalle privazioni e dalla frugalità delle società tradizionali all’eccesso.
Teti commenta l’insospettata somiglianza tra niente ed eccesso, scrivendo che “la melanconia da fame diventava melanconia da benessere, e procurava eccessi, nuove malattie, nuove fobie e manie alimentari“. La modernizzazione e l’abbondanza, per una strana concatenazione di fatti, sono diventati anche causa della desacralizzazione che ha riguardato il cibo e l’acqua. “Insomma, le rovine, le calamità, le catastrofi non costituiscono una sorpresa, un incidente, ma vengono preannunciate, attese, temute, minacciate, fanno parte integrante di quello che la tradizione occidentale pensa di se stessa” scrive Teti: in effetti, diverse discipline avevano già paventato, su basi rigorose, la prevedibilità della Covid o affini pandemie. Eppure, per quanto “avvisati”, tempestivamente, “non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale, riapertura di presidi territoriali”. Da queste premesse può scaturire la costruzione di un “pensiero apocalittico”, per uscire rafforzati dall’incontro con le catastrofi. Il testo si chiude con una interessante Appendice, che riprende l’approfondito studio tetiano sulla letteratura vampirica, già oggetto del saggio “Il vampiro e la melanconia” (Donzelli, 2018). È significativo dover osservare come l’accostamento stigmatizzante, tra pipistrello e maligno, sia ritornato in auge durante la stagione appena iniziata della pandemia. (scheda a cura di Alessandro Cannavale)
L’autore. Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche Antropologie e Letterature del Mediterraneo. Tra le sue pubblicazioni: Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, 2004; 3a ed. 2014); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (Donzelli, 2007); Maledetto Sud (Einaudi, 2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli, 2017); Il vampiro e la melanconia. Miti, storie, immaginazioni (Donzelli, 2018).
* Le immagini di Stefano Stranges sono tratte dal progetto fotografico-editoriale Quell’anno in cui
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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