Amatrice, la città spezzata
«Ci siamo stretti in tre in 40 metri quadri, una zona pranzo, una stanza e un bagno. Mio figlio ha dormito sette mesi sul divano in attesa dell’assegnazione della casa. Prima abitavamo nel centro storico e ora siamo bloccati a tre chilometri dal primo negozio; chi non ha un’auto deve pagare anche l’autobus per poter fare la spesa». Carmine racconta i due anni dal terremoto di Amatrice con un misto di rassegnazione e amarezza. Vive con la moglie in una delle Sae fornite dal governo, le Soluzioni abitative d’emergenza, sul pendio che sovrasta la città quasi rasa al suolo dal sisma, il 24 agosto 2016; le “case Pirozzi” le chiamano i bambini, dal nome del sindaco immagine dei giorni dell’emergenza, quando non perdeva occasione per richiamare l’attenzione sulla tragedia del suo paese. Il sole estivo brucia, l’aria è trasparente e, come succede spesso in montagna, rende nitidi i particolari. «Ho quattro bypass, sono malato di cuore – continua Carmine – per questo motivo ho chiesto che mi venisse data una casetta con una stanza in più ma non me l’hanno concessa. Se mi sento male come lo comunico? Qui non prende nemmeno il telefono». Scuote la testa: «Il mio sogno è tornare a casa mia ma non ci spero più: hanno detto che la ricostruiranno ma dopo due anni devono ancora portare via le macerie. Abbiamo visto che cosa è successo all’Aquila, qui ci vorranno almeno quindici anni».
Davanti alla sua porta, nella stradina che separa i prefabbricati tutti uguali, quasi fossimo in un improvvisato campeggio vacanze, i bambini giocano nella polvere. «Adesso è asciutto ma appena piove l’acqua ristagna, questo inverno ho avuto il bagno allagato per due giorni e i termosifoni bloccati per il freddo. Non sono strutture che resistono a inverni rigidi, tra tre o quattro anni saranno da rifare», testimonia desolata Assunta, la vicina di Carmine, e aggiunge: «Ci hanno messo mesi prima di darci una sistemazione, io ho ottenuto la casetta soltanto a gennaio del 2017; la gente era esasperata e così ha accettato anche quello che non funzionava senza protestare». «Non viene nessuno a vedere come viviamo. Ci sentiamo come deportati», conclude sconsolata. Assunta è rimasta per quattro ore sotto le macerie; quando alla fine è riuscita ad uscire grazie all’intervento del cognato, ha scoperto di avere perso nel crollo il figlio, la nuora e due nipotini di 3 anni e 5 mesi. Poco più in là erano morte anche la sorella e la nipote. Abitava in una palazzina, oggi sotto inchiesta, che nel terremoto del 2009 aveva subito danni ma che in seguito era stata giudicata abitabile.
Amatrice, estate 2018. Fotografia di Stefano Stranges
Dire che un paese terremotato ricorda un paese che ha subito un bombardamento non è certo originale, ma se ti è capitato di vederli entrambi, come un estraneo che si trovi a passare dopo il disastro, il paragone è inevitabile. Dalle case sventrate, sotto ai tetti crollati, le finestre come orbite vuote, restano frammenti della vita passata, diventata macerie come tutto il resto: le pietre e i mattoni sbriciolati, le pagine dei libri insieme ai vetri delle finestre, una bambola, le pentole per il pasto quotidiano. Nel silenzio, perché nessuno abita più lì. Sulle strade si sono aperte voragini e ti aspetti di vedere i sopravvissuti venirti incontro senza le braccia, come in guerra; qui le mutilazioni sono interiori ma altrettanto permanenti e il desolante panorama ad Amatrice, a Norcia, a Pescara del Tronto e negli altri borghi devastati dal sisma (in tutto sono ben 140 i comuni di quattro regioni, Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo) è per certi versi del tutto simile a quello incontrato in Medio Oriente o nei Balcani in anni recenti. Augusto ha perso la cognata nella distruzione di Amatrice e la moglie non si è ancora ripresa dallo choc post traumatico. La loro casa, giudicata pericolante, è stata demolita, ma dell’ordine di abbattimento Augusto è stato avvisato soltanto tre giorni prima: «quando sono riuscito ad arrivare in città, delle nostre cose, buttate fuori dalla porta, non ho trovato più nulla, neanche i vestiti. Tutto rubato: restava soltanto un tavolo e un casco da moto».
Degli abitanti delle 69 frazioni di Amatrice, 174 km quadrati di territorio, ognuno ha una storia da raccontare; c’è chi viene da Roma per nostalgia, come Domenico, Fabio e Rosa, fermi davanti alla zona rossa di Retrosi, completamente distrutta dalle scosse; o chi si arrangia a ricominciare da zero, come Giovanni, che a Cossara nel terremoto ha perso abitazione e attività e oggi ha riallestito il suo Alimentari e Tabacchi in un container. «Lo stesso – ricorda – in cui abbiamo dormito in cinque fino a Natale del 2016».
Il rischio spopolamento
C’è una parola in spagnolo, quebrantandos, che mi è tornata in mente parlando con gli uomini e le donne che hanno vissuto il terremoto. È un termine preso dalla Bibbia, che veniva usato negli anni ’70 per indicare i sopravvissuti alla dittatura militare in Argentina: letteralmente significa “rotti, spezzati” e si riferisce a persone apparentemente integre ma in realtà profondamente incrinate nell’intimo. A Sommati, Giovanni e Anna ci accompagnano a vedere la loro casa, intatta fra tante sventrate; loro si sono salvati ma hanno perso una figlia e un nipotino di sei anni, rimasti schiacciati ad Amatrice centro. Raccontano di una vita di fatiche, passata a lavorare nell’azienda agricola di famiglia e a allevare due bambine, fino alla pensione in questo tranquillo borgo di montagna, con le figlie sistemate e i nipotini che vengono d’estate. Poi in una notte è venuto giù tutto. Oggi vivono in una Sae ai piedi del Pizzo di Sevo, la montagna che veglia su Amatrice, ogni giorno uguale all’altro: «dovevano costruire un centro per l’aggregazione e non l’hanno mai nemmeno iniziato, manca sempre qualche autorizzazione per far partire i lavori – dice Giovanni, con voce incolore – fanno le cose male e non sai con chi prendertela».
La burocrazia intralcia ogni cosa, dallo smaltimento dei detriti all’impiego dei fondi, figuriamoci i tempi della ricostruzione. Su circa 2500 residenti, 1600 hanno perso la prima casa ma il 90% degli immobili è comunque inagibile; chi ha potuto se ne è andato, altri (circa 550) sono stati sistemati nelle “casette Pirozzi”; soltanto in pochi sono riusciti a organizzarsi autonomamente, mentre un centinaio di sfollati vive ancora negli alberghi sulla costa. Ad Amatrice, assicura il sindaco Filippo Palombini, è partita a luglio l’approvazione dei primi “aggregati volontari” – blocchi di edifici che, con l’accordo di tutti i proprietari e il via libera del Comune, possono essere sottoposti a un unico intervento di ricostruzione – ma le cosiddette “case b”, quelle che hanno subito danni lievi, sono tuttora inagibili. Nessuno ci ha ancora messo mano, rallentando di fatto il ritorno alla normalità e alimentando il timore dello spopolamento di questi borghi di montagna, già fortemente provati dalla crisi, dalle difficoltà di collegamento e dalla mancanza di lavoro. Se la viabilità era già trascurata prima, oggi muoversi nelle zone colpite dal terremoto infatti è un’impresa: alcune strade sono ancora chiuse, altre ricordano un percorso a ostacoli, fra buche e sensi unici alternati. «Qui se non si interviene in fretta, nel giro di dieci anni Amatrice è destinata a scomparire. Basta aspettare che i vecchi muoiano». È lapidario Giocondo, seduto di fronte a una fila di case apparentemente intatte, nella frazione di Cossara. Non ci abita più nessuno. «Le “b” dovrebbero essere la priorità, se vogliamo che qualcuno ritorni – insiste lui – ma ci credo poco».
Amatrice, estate 2018. Fotografia di Stefano Stranges
Si è aspettato troppo anche a rimuovere le macerie: «Sono state messe subito sono sequestro dall’autorità giudiziaria e non abbiamo potuto toccarle per quattro mesi e mezzo – testimonia Emma Moriconi, referente per i beni culturali ad Amatrice – quello che non è crollato con il terremoto di agosto è stato distrutto dalle scosse successive del 26 e 30 ottobre e infine del 18 gennaio 2017. Se fossimo intevenuti subito avremmo potuto salvare almeno molte opere d’arte, come l’affresco della Resurrezione di Ferruccio Ferrazzi nella Chiesa dell’Assunta». Ad oggi nel centro storico è stata rimossa soltanto la metà delle pietre e dei calcinacci del 24 agosto 2016.
Dopo uno sciame sismico infinito, le scosse di magnitudo 5.3 del 18 gennaio si sono trascinate via i tetti sommersi dalla neve e quel che restava dei muri rimasti ancora in piedi, mentre interi edifici sono collassati come dopo un knock out su un ring di una partita particolarmente combattuta. Fuori dalla zona rossa la gente guardava le case fantasma crollare ancora e all’impotenza si sommava lo sbigottimento. La terra continuava a tremare e a mangiarsi pezzo a pezzo la storia degli Appennini: venivano giù i palazzi giudicati sicuri da perizie apposite dopo il sisma dell’Aquila del 2009, si afflosciavano su se stessi gli edifici costruiti con i tetti di cemento armato, secondo le norme antisismiche della legge degli anni ’70. Ma la prevenzione non è la priorità, in Italia, nonostante un territorio ad alta sismicità che attraversa tutto il Centro Sud; meglio allora parlare all’occorrenza di “tragica fatalità” e prepararsi per l’onere (e, per alcuni, le ricche commesse) di una lunga e faticosa ricostruzione. Promesse e disillusione la accompagnano, mentre si consolida lo sradicamento delle comunità, disperse su un territorio immenso, privo di servizi e di risorse economiche, dove i legami sociali si allentano e si finisce a languire quando l’enfasi degli anniversari svanisce. Ci vorranno dieci, vent’anni, chissà: alcuni borghi sono finiti per sempre sotto le ruspe del Genio civile dell’esercito, come a Pretare o a Pescara del Tronto, che non potrà essere ricostruita: troppo fragile la roccia su cui era stata edificata; per non parlare di Castelluccio di Norcia, ormai disabitato e preda di progetti sconsiderati (http://www.lostatodellecose.com/scritture/deltaplano-storie-del-doposisma-benvenuti-castelluccio-norcia-possibile-loredana-lipperini/) che rischiano di intaccare per sempre il fascino unico del Pian Grande e dei suoi colori. Voltarsi indietro è per tutti, qui, un esercizio troppo doloroso, anche senza voler vedere le inefficienze, i conti che non tornano, gli errori e chi già se ne approfitta per trasformare la disgrazia in vantaggio personale. Per dirla con le parole di Carmine: «Anche se durante la sua visita il presidente Mattarella mi ha assicurato che ricostruiranno Amatrice, io so che bella come prima non sarà mai più».
Amatrice (dintorni), estate 2018. Fotografia di Stefano Stranges
Campotosto, il borgo perduto
A Campotosto, davanti alla “Casa degli Alpini”, risate e musica di organetto richiamano i passanti a partecipare ai “tre giorni della sposa” che, come vuole la tradizione, offre ai passanti baccalà, alici e tonno per festeggiare il suo matrimonio. Un fermento che per un fine settimana riempie la struttura polivalente antisismica costruita dagli alpini, un luogo di aggregazione per un paese distrutto dal sisma del 18 gennaio 2017, quando quattro scosse di magnitudo 5.4 lo hanno reso inagibile all’80%. «In genere non c’è tutta questa gente – avverte il sindaco – il terremoto ha disperso una comunità che già era ridotta all’osso, con meno di 500 residenti effettivi e respinto i turisti, che almeno in estate arrivavano fin qui, a 1400 metri d’altezza, per il lago e l’aria di montagna». Lui è stato l’unico a restare in paese dopo il terremoto, quando la neve ricopriva le macerie fino a tre metri e, ricorda, «non si riusciva a vedere fuori dalle finestre». Ma Luigi Cannavicci più che dalla natura sembra provato dalle istituzioni: i primi soccorsi sono arrivati dopo ore a causa delle terribili condizioni atmosferiche e i rilievi dei danni non si sono potuti effettuare prima di marzo, un ritardo che si è sommato alle tante lentezze burocratiche che hanno afflitto Campotosto negli ultimi anni. «Le verifiche ancora non sono finite», puntualizza; e aggiunge: «Rigopiano, con la valanga che ha travolto l’hotel e che probabilmente è stata provocata proprio dai movimenti tellurici, ha attirato l’attenzione dei media e si sono dimenticati di noi».
Il sindaco Luigi Cannavicci fra le macerie di Campotosto. Fotografia di Stefano Stranges
Benvenuti nel paese che da quasi due anni non riceve più i quotidiani, come se non valesse la pena tenere in contatto con il resto del mondo questo grazioso borgo che s’affaccia sul secondo lago artificiale più grande d’Europa; un pugno di case di pietra costruite tra il verde e il blu, che oggi somigliano sempre di più a quinte di cartapesta su un palco polveroso abbandonato dagli attori. Ed è più o meno quello che in effetti è successo: «il comune era già nel cratere dell’Aquila dal 2009 ma nessun aggregato del centro storico era ancora stato ricostruito al momento del sisma del 2017 – testimonia Cannavicci – C’è stato il terremoto cosiddetto di Amatrice ma noi non abbiamo avuto danni; poi è arrivato quello di gennaio ed è venuto giù tutto: la chiesa, già pericolante, è collassata, e hanno ceduto palazzi giudicati solidi nel 2009 e che invece chiaramente non potevano reggere, mentre case “b” sono state declassate a rischio sismico “e”. Quanto denaro pubblico sprecato, quanti rischi inutili. Non si potevano fare le cose meglio?».
Campotosto, estate 2018. I container in piazza. Fotografia di Stefano Stranges
E poi le interminabili attese, che troppo spesso hanno il sapore amaro dell’abbandono: «le Sae non sono state ancora costruite, per la sede del municipio sono stati stanziati un milione e 600mila euro ma per dare il via ai lavori bisogna passare dalla Centrale unica di committenza, che non risponde da mesi – sottolinea il sindaco – perfino per lo smaltimento delle macerie abbiamo dovuto aspettare». Qui c’è gente che vive ancora nei Map, i moduli abitativi provvisori forniti dal governo dopo il sisma dell’Aquila: «per ironia della sorte si è rivelata una fortuna, perché chi li abita non ha subito danni e nell’immediatezza ha potuto ospitare gli sfollati rimasti senza casa». Cannavicci ammina sconsolato fra le vie deserte della zona rossa, mostrando scheletri di case messi a nudo dal crollo, con profonde crepe nelle pareti rimaste e travi che poggiano su canne fumarie di eternit. Neanche a dirlo, la ricostruzione ancora non è partita, né pubblica né privata. Al bordo della strada sono impilate a futura memoria le singole pietre dei muri: «il Ministero per i beni e le attività culturali ci costringe a tenerli perché sostiene che altrimenti perdiamo l’identità del paese», spiega Cannavicci. «Ma io non ho perso l’identità, ho perso proprio il paese».
Campotosto, estate 2018. Fotografia di Stefano Stranges
Visso è in Emilia?
La “perla dei monti Sibillini”, costruita all’incrocio di due faglie sismiche, si è trovata proprio all’epicentro delle scosse del 26 e 30 ottobre 2016 ma, anche se il bilancio dei danni è stato molto pesante, non c’è stata nessuna vittima. «Visso è abituata ai terremoti ed è stata costruita per reggere. Val Nerina 1979, Marche-Umbria 1997, Centro Italia 2016-2017: li ricordo tutti benissimo». Il sindaco snocciola sicuro date di sconvolgimenti tellurici come fossero vittorie in campionato: «per non parlare del grande terremoto del 1703 – aggiunge – una volta edificavano le case con pietre squadrate, praticamente dei mattoni di pietra, per renderle più resistenti; i disastri li ha fatti la normativa antisismica degli anni ’70, che imponeva di fare i tetti di cemento armato: quelli sì sono venuti giù tutti, anche quello del municipio».
Giuliano Pazzaglini, sindaco della Lega e dallo scorso 5 marzo anche senatore della Repubblica, non ha dubbi: i legacci, gli impicci, i ritardi e in generale tutti problemi del post sisma sono dovuti alla kafkiana macchina della burocrazia, che intralcia con norme inutili e inadeguate il già non semplice cammino della ricostruzione. Di fronte alla nuova sede del comune, ricavato negli spogliatoi della ex piscina, con lo scrosciare delle fontane che ricorda quanto Visso sia stata edificata sull’acqua, il sindaco spiega come, anziché adeguare un quadro normativo già molto complesso alle particolari esigenze del territorio, si sia scelto di complicare ulteriormente le cose, tanto che qui «nemmeno il commissario riesce a ricostruire».
Visso, estate 2018. Fotografia di Stefano Stranges
«A ottobre del 2016, dopo il terremoto di Amatrice – spiega Pazzaglini – Visso e pochi altri comuni marchigiani erano già iscritti nel primo cratere e io avevo chiesto espressamente che venisse adattata alla nostra situazione la legge speciale n. 61 del 1998, promulgata per la ricostruzione di Marche e Umbria, perché aveva funzionato bene ed era conosciuta da tutti, enti pubblici e privati. Invece sono stati presi come riferimento gli ultimi due terremoti, all’Aquila e in Emilia: non a caso in qualche provvedimento si trovava ancora qualche nome di comuni di quella zona, dimenticato in un frettoloso copia-incolla». Ma se all’Aquila le “casette”, con tutte le polemiche sulla militarizzazione del territorio, erano pronte in sei mesi, qui dopo quasi due anni ancora non sono state consegnate tutte. «Che cosa c’entra Visso con l’Emilia? – rincara Pazzaglini – Là è tutto pianeggiante e le pareti delle case sono di 30 centimetri, qui nei borghi medioevali abbiamo edifici vincolati dalle Belle Arti con muri spessi anche un metro».
Dal paese, dopo le prime scosse del 26 ottobre, sono stati evacuati tutti. Per giorni la terra ha cambiato consistenza: si sollevava in onde, pareva quasi liquida e per stare in piedi ci voleva l’abilità di un surfista. il borgo antico sorto alla confluenza di tre fiumi sembrava quasi essere diventato tutto d’acqua e il terremoto una tempesta. E ora il rischio è che i cittadini fuggiti sulla costa non tornino e che la “perla” diventi un museo a cielo aperto dove la gente passa ma non si ferma. «In teoria il paese per “rischio idrogeologico” non potrebbe nemmeno essere ricostruito – conclude il sindaco – ma la prerogativa di Visso è proprio l’acqua: sarebbe come dire che non puoi restaurare Venezia per rischio allagamento».
Camerino, la tela che si sfalda
«Non si vende niente. La gente qui non viene perché gli ricorda il terremoto». È lapidario il proprietario di un negozio di articoli per la casa, ammassati in pile precarie in uno spazio di due metri per due sotto la tensostruttura del Camerino City Park, che ora ospita le botteghe del centro storico, inaccessibile dopo il sisma. Un parco commerciale allestito per salvare i negozi della zona rossa e che assembla in un unico posto salumi e formaggi, oreficerie e abbigliamento. Sergio ha cercato di ricreare l’atmosfera della sua gioielleria, con le vetrine eleganti e la poltrona di pelle che ha conservato con cura; trent’anni di attività non si sprecano giocando al ribasso sullo stile, qualunque cosa accada, e Sergio serve i clienti con la serietà di sempre anche sotto un tendone. «Al di là del danno economico, il problema è che la città non avrà mai più l’aspetto di un tempo – spiega pacato – perdere il centro storico significa perdere le radici, l’identità stessa di una comunità. Qui, come in tutto l’alto maceratese, la cosa grave è la disgregazione del tessuto sociale».
Ci vorranno forse trent’anni per ricostruire Camerino, gioiello architettonico cresciuto su un colle fra i monti Sibillini e il monte San Vicino, sede universitaria dal 1336. «La città non esiste più – dice sconsolato Marco Paniccià, dell’associazione “IoNonCrollo” – l’ex commissario Errani ha impostato la ricostruzione come se fossimo in pianura e le Sae non reggono agli inverni rigidi di questa zona: saltano le caldaie, si gelano le tubature. Il paradosso è che ne sono state costruite soltanto una piccola parte e fra cinque anni già dovrebbero essere smontate perché si tratta di strutture provvisorie e il terreno dovrebbe tornare ad essere agricolo. In comune già stanno discutendo in che cosa verranno convertite mentre abbiamo ancora sfollati costretti a stare negli hotel sulla costa, da Rimini a Roseto degli Abruzzi. Quello che abbiamo sotto gli occhi è il simbolo del fallimento della gestione di un terremoto».
Camerino, estate 2018. Fotografia di Stefano Stranges
Apparentemente il centro storico ha resistito all’impatto: qualche crepa nei muri a denunciare lo sforzo di reggere, ma nel complesso non ci sono i palazzi sbriciolati a cui ci hanno abituato lo spettacolo di Pretare, Arquata del Tronto, la stessa Amatrice. «Ci siamo salvati grazie ai lavori di consolidamento sismico fatti dopo il terremoto che ha colpito Umbria e Marche nell’autunno del 1997», spiega Leo Marucci, consigliere comunale di Camerino. Eppure si cammina in una città fantasma, dove nessuno può più abitare; le chiese sono vuote di fedeli, i locali hanno tirato giù le serrande, dai balconi non si affaccia nessuno. E, soprattutto, non c’è più nemmeno uno studente che si affretta per arrivare a lezione, le aule delle facoltà vuote e silenziose. «Con il terremoto di agosto 2016 abbiamo avuto qualche danno, ma la vera botta è arrivata ad ottobre – puntualizza Marucci – Su trecento edifici soltanto trenta sono agibili Molti palazzi sono stati danneggiati all’interno e non si sa ancora quanti saranno abbattuti. Si stima che lo stesso puntellamento sarà ultimato nella primavera del 2019». Senza contare le necessarie sanatorie degli edifici non a norma, che andranno a ingrossare i faldoni delle pratiche e a rallentare ulteriormente i tempi della ricostruzione. Nel frattempo, i prezzi sono schizzati alle stelle e i non residenti intenzionati a frequentare l’università a Camerino, magari approfittando del fatto che le tasse (almeno per l’anno scolastico 2018/19) non si pagano e i servizi (dalle mense ai trasporti) sono potenziati, si trova a pagare anche 400 euro al mese l’affitto di una stanza di 20 metri quadri.
La scelta per i cittadini, al momento, sembra essere il ricominciare altrove o resistere nel “ghetto” delle Sae. Una triste fotografia per il centro di ricerca universitaria che Camerino ha rappresentato per la regione e che adesso rischia di diventare presto irriconoscibile. «Si era già cominciato a decentrare negli anni Sessanta e il terremoto non fa che aggravare questa emorragia spostando studentati, centri sportivi, studi di professionisti nelle città vicine», aggiunge Marucci. Il problema è anche che la ricostruzione pubblica e quella privata non vanno di pari passo. «Se ormai è chiaro che Camerino nuova sorgerà fuori dalle mura – conclude – almeno si potrebbero restaurare palazzi storici che si trovano sul perimetro della zona rossa, come il Palazzo della Musica o il Museo Civico, in modo da attirare turisti e studiosi e non spegnere la vitalità culturale della città».
Camerino, estate 2018. Fotografia di Stefano Stranges
Al limitare del centro storico, soltanto tre famiglie sono riuscite a riprendere possesso della propria abitazione, sentinelle solitarie di una roccaforte altrimenti deserta. Gina guarda dalla finestra che dà sulla strada che digrada impervia verso valle. Con il marito è rientrata ai primi di dicembre 2017 ma la vita ora non è semplice per due anziani isolati: «non ci sono negozi, bisogna fare mezz’ora a piedi anche soltanto per comprare il pane e mio marito ha problemi a camminare. D’altronde sapevamo che dopo un trauma simile non si torna alla normalità in pochi mesi», dice. Se le si chiede sommessamente se valga la pena restare e sopportare tanti disagi, scuote la testa. E poi aggiunge: «Però almeno è casa nostra».
L’autrice. Federica Tourn è giornalista professionista; come freelance si è occupata soprattutto di migranti, religioni, diritti umani, mafie, femminismo. Ha scritto reportage da diversi paesi, dalla Siria alla Tunisia, dalla Namibia all’Ucraina; ha collaborato fra gli altri con Diario, D di Repubblica, Left, Jesus, Eastwest, Huffingto
Il fotografo. Stefano Stranges è un fotografo indipendente italiano. Specializzatosi nel 2012 con un Masterclass della Magnum Photo, i suoi lavori sono focalizzati sul tema reportagistico sociale, alternando servizi istituzionali e reportage di viaggio, a collaborazioni con organizzazioni umanitarie e riviste del settore, tra le quali Rolling Stone, Il Reportage, Jesus, Il Manifesto, La Stampa, La Repubblica, Left. Nel 2017 ha fondato, insieme a tre colleghi fotogiornalisti, il CollettivoX, progetto legato alla didattica e sensibilizzazione nelle scuole e in centri formativi delle città. Nello stesso anno entra a far parte del collettivo fotogiornalistico Walkabout-Photography. Attualmente è impegnato in un progetto a lungo termine con l’ong Terre des Hommes.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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