Storia e mito, scienza e urbanistica, letteratura e antropologia di un terremoto da capire*
Un drago chiamato Tifeo
Nella letteratura popolare ischitana si narra che sotto l’isola risieda Tifeo, un gigante dalle cento teste che, per realizzare le ambizioni di sua madre Gaia, si ribellò a Zeus, il quale, tuttavia, prevalse dopo una lotta feroce e lo confinò nel sottosuolo dell’isola di Pithecusae, che così cominciò a eruttare fuoco e ad avere le acque calde, nonché a subire scuotimenti dovuti all’irrequietezza del mostro (Vuoso 2002). Sebbene il mito di Tifeo nasca in Cilicia, il suo ricorso come figura allegorica dell’instabile geomorfologia ischitana è dovuto all’importanza dell’isola in età classica come «crocevia del mondo antico» (Buchner 1994) e si è adattato così bene che del gigante c’è un riflesso anche in superficie, attraverso la toponomastica popolare e ufficiale che descrive i luoghi proprio in sua funzione, come ad esempio il borgo di Panza, le fumarole de La Bocca e altre località (Di Meglio 2007). Nella leggenda fondativa di Ischia, Tifeo è un drago che vuole prendere il posto di Giove, ma che il padre degli dei riesce a fermare scagliandogli addosso l’isola, in modo da schiacciarlo col monte Epomeo. Intrappolato nel sottosuolo, il mostro tuttavia non è morto, per cui di tanto in tanto si dimena e sputa fuoco, il che fornisce non solo il soggetto di una narrazione popolare, ma più profondamente un quadro di senso che, di generazione in generazione di ischitani, ha permesso da un lato di sottolineare la propria appartenenza locale e, dall’altro, di esorcizzare paure e di trovare spiegazioni accessibili ad eventi ritenuti eccezionali.
Nonostante l’ultima eruzione risalga al 1302, Ischia, infatti, è insieme ai Campi Flegrei e al Vesuvio uno dei tre vulcani attivi della provincia di Napoli. Dal punto di vista geologico, la durata dei suoi cicli di alternanza tra quiescenza e fase attiva è tipicamente di 10.000 anni (Civetta et al. 2016). Ciò comporta lunghe fasi di apparente assenza di attività, sporadicamente interrotte da sismi di bassa magnitudo localizzati a poca profondità nel settentrione dell’isola e accompagnati da diffuse manifestazioni fumaroliche e idrotermali. Si noti che, in quanto ancora attivo, il vulcano ischitano è potenzialmente in grado di eruttare in futuro, con effetti particolarmente preoccupanti a causa dell’intensa urbanizzazione che ha interessato il suo territorio nel corso del Novecento.
«È successa una Casamicciola»
La storia sismica dell’isola ha inizio nel 1228 e ha le consuete caratteristiche della sismicità in aree vulcaniche, ossia terremoti di bassa energia, ma di forte intensità (Luongo 2016, p. 15). Gran parte degli eventi sismici registrati negli ultimi otto secoli ha come epicentro il versante nord del monte Epomeo, quello corrispondente ai comuni di Casamicciola Terme e di Lacco Ameno. L’Ottocento è stato il secolo con più terremoti: nel 1828 vi furono alcune vittime e vari danni materiali a Casamicciola, lasciando per diversi decenni il ricordo di sé nella memoria collettiva, almeno fino alla catastrofica scossa del 28 luglio 1883, che fu preceduta da forti movimenti tellurici già nel 1880 e 1881. Il terremoto del 1883, il primo dell’Italia unita e il più intenso mai registrato a Ischia, è anche il più ampiamente documentato sia in letteratura che nelle fonti d’archivio: causò 2.333 morti e la distruzione del patrimonio storico e ambientale di alcune aree dell’isola; i danni più ingenti si verificarono a Casamicciola e a Lacco Ameno, dove su 1.061 abitazioni censite ne rimasero in piedi solo 19 (una sola a Casamicciola) (Polverino 1996, p. 31).
All’epoca Ischia era meta di un turismo facoltoso ed internazionale, richiamato dalla presenza di stabilimenti per le cure termali e dalla salubrità del suo mare, per cui il disastro sismico ebbe un grande riverbero sulla stampa nazionale ed estera e un notevole impatto emotivo, che fece nascere un modo di dire, presto diffuso in tutto il Paese: «È successa una Casamicciola», come espressione di rovina, disordine, confusione. Quell’evento segnò la fine di un’epoca e un nuovo inizio per il turismo ischitano: «L’origine prima [del deterioramento del rapporto tra natura e artificio], anche sul piano della caratterizzazione architettonica, risale al tempo del terremoto di Casamicciola, con cui si chiude la stagione d’oro del turismo ottocentesco e inizia a cambiare il rapporto con il paesaggio e con l’ambiente naturale e costruito», di cui sarà elemento dominante il turismo di massa novecentesco (Maglio 2017, p. 329).
La più nota testimonianza diretta di quella catastrofe è di Benedetto Croce, all’epoca diciassettenne, unico sopravvissuto della sua famiglia al crollo della loro casa di vacanza, che racconta di quella terribile esperienza tra il “Contributo alla critica di me stesso” (1918) e le “Memorie della mia vita” (1966): «Rinvenni a notte alta e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle […]. Verso la mattina (ma più tardi), fui cavato fuori, se ben ricordo, da due soldati e steso su una barella all’aperto. Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane». Il terremoto cambiò la vita di Croce sia negli affetti che nei pensieri: «Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio» (Croce 1966, p. 23).
Il terremoto di Casamicciola rappresenta la prima grave catastrofe con la quale dovette confrontarsi il governo nazionale, che promulgò con una certa premura la prima normativa antisismica in età post-unitaria. II “Regolamento Edilizio per i Comuni dell’Isola d’Ischia danneggiati dal terremoto del 28 luglio 1883” entrò in vigore il 15 settembre 1884 – con «validità a tempo indeterminato» – e indicava le prescrizioni per le nuove costruzioni (si consigliò di utilizzare il sistema “baraccato”), la definizione e delimitazione delle “zone pericolose”, le norme per i fabbricati danneggiati e pericolanti, l’istituzione della Commissione Edilizia Speciale con compiti di eseguire e far eseguire le disposizioni contenute nel Regolamento (Castagna 1984). Tra le numerose personalità politiche e scientifiche intervenute sulla scena del disastro, un lavoro significativo fu intrapreso, sul piano politico, da Francesco Genala, Ministro dei Lavori Pubblici, e, sul piano conoscitivo, da Giulio Grablovitz, fondatore e direttore dell’Osservatorio Geodinamico di Casamicciola, giunto ad Ischia nel 1884, dove sarebbe rimasto per tutta la vita. Durante l’emergenza e nella fase della pianificazione per la ricostruzione, le scelte del ministro Genala furono determinanti: rimase sull’isola circa un mese, visitò i luoghi maggiormente danneggiati, seguì il dibattito scientifico che attribuì l’entità dei danni al modo di edificare e, come ricordato, favorì la promulgazione del Regolamento Edilizio. L’anno dopo il sisma, invece, sull’isola approdò Grablovitz, che studiò la natura geologica del territorio elaborando uno dei primi sistemi di monitoraggio di un vulcano attivo e adoperandosi concretamente alla divulgazione alla popolazione dei risultati delle sue ricerche (Carlino et al. 2011).
21 agosto 2017
Dopo 134 anni di sostanziale quiete sismica, la sera del 21 agosto 2017 un nuovo terremoto sconvolge l’isola d’Ischia, in particolare – come in tutti i sismi ottocenteschi – i comuni di Casamicciola Terme e di Lacco Ameno: una scossa di sei secondi fa crollare vecchi palazzi, lesiona irrimediabilmente decine di abitazioni, porta all’evacuazione dell’ospedale Rizzoli e alla fuga di centinaia di turisti riversati sui moli isolani per rientrare a Pozzuoli e Napoli. Soprattutto, però, sotto le rovine di edifici fatiscenti muoiono le signore Lina Balestrieri e Marilena Romanini, rimangono ferite decine di persone e tre bambini vengono salvati dalle macerie dopo 16 ore di apprensione. Il terremoto è stato di magnitudo 4, ma piuttosto superficiale: ad 1,73 km di profondità, in prossimità di piazza Majo, nella parte collinare e storica di Casamicciola. Alle 20:57 un boato scombussola il versante settentrionale di Ischia, in un ammasso di mattoni e lamiere, black-out e grida, viavai frenetico e sirene, elicotteri e unità cinofile, ma in più turisti brulicanti con trolley e a passo svelto.
Si scava tutta la notte, specie in località La Rita, dove Ciro (11 anni), Matthias (8 anni) e Pasquale (7 mesi) sono rimasti sepolti sotto la loro casa. Il loro salvataggio diventa un caso nazionale, le televisioni seguono la vicenda senza sosta, naturalmente con speranza, ma anche alla ricerca dell’eroe, quale diventa il fratello più grande che, dopo aver spinto il secondogenito con lui sotto il letto, con un manico di scopa batte a lungo contro le macerie per farsi sentire dai soccorritori, i quali riescono a trovarli solo l’indomani dopo mezzogiorno. L’immagine iconica dell’intero disastro, tuttavia, è relativa al salvataggio di Pasquale, il neonato: alle 4 di notte i vigili del fuoco lo tirano fuori dai detriti e, con un singolare gioco di luci ed ombre dovuto alle cellule fotoelettriche e con un incrocio di mani protese e sguardi tirati, Antonio Dilaurenzo scatta una fotografia che viene immediatamente paragonata ad un Caravaggio, tra dramma e speranza, fatica e miracolo, cronaca ed estetica (guarda qui)
Perseveranza, eroismo e commozione, però, non fermano un altro tipo di narrazione, quello dell’illegalità urbanistica, secondo cui Ischia diventa «l’isola capitale dell’abusivismo», dove un residente su due costruisce al di fuori della legge, afferma la Protezione Civile, e addirittura, aggiunge “Il Mattino” di Napoli, in certe zone come la località del salvataggio dei fratellini «il 90 per cento delle case è stato costruito abusivamente su un terreno franoso». Dell’abusivismo edilizio parlano tutti, da Legambiente all’Ordine dei Geologi, compreso Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania, che – ribaltando il paradigma – accusa addirittura l’ambientalismo, che «ferma tutto da 25 anni». L’abusivismo è una categoria ampia in cui confluiscono una vasta gamma di illegalità, piccole e grandi, e che storicamente può avere cause molto diverse, per cui andrebbe analizzata con attenzione e cognizione, altrimenti rischia di avere un duplice effetto controproducente: da un lato, colpevolizzare le vittime e, dall’altro, distogliere l’attenzione dal problema più ampio in cui questo è compreso: la cementificazione – soprattutto legale – della ormai ex “Isola Verde”. L’urbanizzazione che a partire dagli anni Cinquanta del Novecento ha invaso Ischia si porta dietro certamente uno dei tassi di abusivismo edilizio più alti d’Italia, dunque d’Europa, ma anche una pressione antropica che ha congestionato lo spazio e alzato l’intensità del traffico automobilistico, che non ha un valido sistema di smaltimento dei rifiuti liquidi urbani, che spinge ai margini – sociali e geografici – coloro che non hanno la forza di stare al passo con il turbinio economico e, soprattutto, che divora terreno e relazioni come qualsiasi altra “industria” in espansione. Anche nelle zone meno ambite dell’isola, il costo di un’abitazione è ormai proibitivo, per cui, spiega Francesco Rispoli, «l’abusivismo di necessità è stato un potente ammortizzatore sociale e uno straordinario dispositivo di costruzione di fortune elettorali (e di fortune economiche, per quanto riguarda l’abusivismo di speculazione)» (Rispoli 2010, p. 14). Se altrove il cambiamento – dell’immaginario e dell’uso del territorio – è stato più graduale, ad Ischia questo processo è avvenuto in maniera radicale e repentina: attraverso l’accattivante immagine di sé che è riuscita a veicolare, l’isola si è trasformata in un laboratorio di imprenditoria turistica ampia e ramificata affetta da una vera e propria “febbre” costruttiva che l’ha fatta esplodere demograficamente ed economicamente, ma non altrettanto dal punto di vista dei servizi e delle infrastrutture, per di più spesso senza pianificazione e controllo. Una certa idea di sviluppo – sfrenato e illimitato – ha smodatamente consumato suolo ed ecosistema; la mancanza di un’etica della responsabilità ha condotto ad una situazione attuale in cui specie gli ischitani più giovani rischiano di avere dinnanzi un non-futuro, se non drammi concreti, come nel 2006, quando un’intera famiglia fu spazzata via da una frana dovuta all’impermeabilizzazione dei suoli, e nel 2015, quando morì un uomo per la stessa ragione.
In merito al sisma del 2017, quel che appare evidente è un progressivo dissolvimento della memoria della catastrofe del 1883, dal momento che la gran parte dei danni osservati dall’ISPRA lascia intuire una scarsa manutenzione degli edifici costruiti in seguito al terremoto di fine Ottocento. Questi, sebbene antisismici per le conoscenze e le tecniche dell’epoca, oggi risultano molto fragili specie perché il collante dei laterizi si è deteriorato e ha scarsa tenuta. Soprattutto, però, dal punto di vista dell’ingegneria sismica gli edifici appaiono “appesantiti” da superfetazioni successive che, accostate all’esistente senza vincolarle alle strutture adiacenti, ne hanno in realtà elevato la vulnerabilità complessiva (ISPRA 2017, p. 15).
A un anno di distanza, mentre persiste lo stato di emergenza decretato dal governo, gli sfollati sono oltre duemila, tutti residenti sull’isola tra seconde case e abitazioni di parenti, tranne un quarto ancora in alberghi o altre strutture ricettive chiuse; sono riuniti nel comitato “Risorgeremo nuovamente” e sono fortemente intenzionati a tornare nelle proprie abitazioni della zona rossa. Le modalità per un rientro, tuttavia, sono di là dall’essere definite e, di conseguenza, i tempi sembrano ancora piuttosto lunghi. Dopo un primo commissario all’emergenza, Giuseppe Grimaldi, nominato a fine agosto 2017, il 9 agosto 2018 il governo ha avviato un cambio di fase, incaricando un commissario per la ricostruzione, Carlo Schilardi, ex prefetto e già commissario per eventi calamitosi in altre province italiane. Gli interessati – sindaci e terremotati – hanno accolto positivamente la nuova nomina che, riporta Pasquale Raicaldo, «rappresenta un forte segnale di ottimismo. […] Ischia deve ora lanciare un messaggio forte al mondo: la zona rossa non va abbandonata, ma resa assolutamente sicura».
Della perduta oggettività
Dopo il salvataggio dei fratellini e il discorso sull’abusivismo edilizio, il dibattito pubblico si è concentrato sulle polemiche scientifiche in merito al calcolo della magnitudo e alla localizzazione dell’ipocentro.
Difficoltà sulla misurazione delle magnitudo (ne esistono varie tipologie) sono emerse immediatamente, così come sull’individuazione del punto in cui si è generato il terremoto, e solo dopo quattro giorni si sono avuti dati condivisi. Nella medesima notte del sisma l’INGV ha prima fatto slittare la magnitudo da M3.6 a M4.0, poi ha rivalutato l’ipocentro da 10 km di profondità a 5 km, ma sempre localizzandolo in mezzo al mare e non sotto il centro abitato, come ha poi appurato successivamente lo stesso istituto. Ad avviare il confronto (che poi si è protratto per molti mesi) è stato il sismologo Enzo Boschi (ex presidente dell’INGV), che dopo due ore e mezza dalla scossa, su Twitter ha espresso alcuni dubbi sulla prima valutazione scientifica: «Pur senza accesso ai dati, penso che 3.6 magnitudo del terremoto di Ischia sia una sottovalutazione. Anche la profondità è da verificare». Durante la notte, poi, si è sviluppata una discussione piuttosto accesa con il geologo Alessandro Amato (ricercatore dell’INGV), il quale ha affermato: «Enzo mi meraviglio di te. Dovresti sapere come funziona. Nessuna discrepanza. Stime diverse in tempi diversi. Che delusione…». Per giorni si sono susseguite numerose dichiarazioni e interviste da parte del direttore dell’INGV, Carlo Doglioni, e della direttrice dell’Osservatorio Vesuviano, Francesca Bianco, che motivavano i dati rilasciati alla stampa, comprese le loro successive variazioni, e spiegavano le ipotesi su cui gli scienziati stavano lavorando (tra le altre: si è trattato di un terremoto di origine tettonica o vulcanica?), ma il 23 agosto, su Facebook, il vulcanologo Giuseppe Luongo (ex direttore dell’OV) ha formulato ulteriori dubbi: «i dati sull’epicentro non giustificano gli effetti osservati a terra […], in quanto i danni sulla costa sono insignificanti rispetto a quelli della zona interna. Con tale scenario è poco verosimile che l’epicentro sia in mare. [In altre parole,] la localizzazione epicentrale ottenuta con la strumentazione sismica è in contrasto con l’epicentro dei danni. Questa differenza ritengo sia dovuta alla distribuzione delle stazioni sul continente, mentre l’epicentro è fuori rete».
Il post è stato molto rilanciato, al punto che se ne è occupato anche “Il Mattino”, il principale quotidiano napoletano, a cui il professore ha dichiarato: «Studio l’isola di Ischia da oltre 30 anni e quel terremoto è avvenuto esattamente dove doveva accadere e dove sono sempre accaduti storicamente […]. Una delle informazioni più importanti per uno scienziato è la storia geologica di un sito, basandoci dai racconti in epoche remote possiamo ricostruirne la tettonica, la vulcanologia». A causa di quest’errore, ha aggiunto Luongo, «la ricerca scientifica è ferita mortalmente. [Si tratta di] un errore troppo imbarazzante, sono rimasto zitto per alcuni giorni ma non ce l’ho fatta oltre perché non vorrei far diventare storico un dato sbagliato». Il giorno seguente, invitato da alcuni residenti di Casamicciola, Luongo ha ulteriormente specificato questa posizione in una conferenza stampa sull’isola: «Non si poteva stare zitti, anche perché quando un dato scientifico errato diventa storico, diventa pesante: quel dato condiziona il futuro, condiziona uno sviluppo della ricerca e della conoscenza» (in: Mazzella 2017, p. 7), senza dimenticare che la prima informazione sismografica, per quanto provvisoria, ha soprattutto la funzione d’indirizzo dei primi soccorsi, per cui un suo errore macroscopico può avere riverberi gravi e concreti. L’errore deriva da un vincolo tecnico, dal momento che la prima localizzazione di un sisma è sempre automatica perché il sistema elabora i dati provenienti dalle varie stazioni locali e, attraverso un modello basato sulla velocità delle onde sismiche, individua un epicentro ed un ipocentro. Tuttavia, se una procedura del genere funziona in Irpinia o nel Centro Italia, dove la rete di rilevatori sismici è piuttosto ramificata, altrettanto non si può dire ad Ischia e per le altre cosiddette “aree decentrate”. Ci troviamo, dunque, in una di quelle congiunture storiche evidenziate da Lorraine Daston e Peter Galison in cui «l’oggettività ha paura della soggettività» (Daston, Galison 2007, p. 374). Nella cosiddetta “truth-to-nature era”, ossia l’epoca dal XIX al XXI secolo in cui la “truth-to-nature” è giunta al suo apice e ha assunto una dimensione metafisica, un’aspirazione a rivelare una realtà accessibile solo con difficoltà, l’idea di oggettività si è progressivamente tramutata in un concetto apparentemente assoluto quando riferito agli strumenti tecnologicamente avanzati, sebbene siano – ancora e inevitabilmente – storici e fallibili. La soggettività esplicitamente rivendicata da alcuni esponenti del dibattito non rinnega l’utilità, anzi la necessità di strumenti di rilevazione e di calcolo sempre più precisi: questi sono fondamentali per quel “viaggio nella sostanza” – un viaggio d’origine illuminista al contempo geografico, scientifico, artistico, filosofico – che Barbara Maria Stafford ha definito «la “realizzazione” della natura» (Stafford 1984), ossia una interpretazione razionalistica del mondo esterno. Questa visione, tuttavia, si è fatta progressivamente più inerte e opaca, per cui reclamare oggi una certa soggettività intende sottolineare l’importanza irrinunciabile della mediazione, del filtro, dell’interpreatazione alla luce di specifiche letture storiche e teoriche: «Quando la procedura è automatica – ha dichiarato Luongo – l’errore può succedere, poi però ci vuole un operatore; questi deve mettere dei vincoli, cioè le soluzioni possono essere infinite [e solo mettendo dei vincoli] le soluzioni si restringono» (in: Mazzella 2017, p. 9).
Già in occasione del terremoto del 1883 il confronto tra scienziati fu piuttosto acceso. Ne è un esempio lampante la polemica tra Luigi Palmieri e Giuseppe Mercalli. Laddove Palmieri, un’eminenza dell’epoca, era convinto che «l’isola d’Ischia [avesse] sofferto un immenso disastro, ma non un grande terremoto» (Palmieri, Oglialoro 1884), Mercalli nella sua Memoria (1884a) e in un’ulteriore nota ad essa successiva (Mercalli 1884b), si basò sul proprio lavoro di campo per sottolineare, invece, che «il disastro del 28 luglio [1883], sebbene per il dinamismo e per le rovine da esso cagionate sia inferiore a molti altri terremoti italiani, è tuttavia un terremoto di grande intensità e violenza» (Mercalli 1884b, p. 848, 849).
Dopo oltre un secolo, il sisma del 2017 a Casamicciola ha riaperto discussioni e confronti tra diverse sensibilità e approcci che certamente fanno costantemente parte del campo scientifico, tuttavia – al di là delle polemiche e delle differenti interpretazioni del fenomeno – è ritenuto «un terremoto da capire», un evento che, evidentemente, pone i sismologi contemporanei dinnanzi ai loro limiti strumentali, se non ad aggiustamenti teorici e a riformulazioni di scenari.
Immaginare ripari
Il terremoto sconvolge il tempo e lo spazio, le relazioni e gli sguardi; il terremoto dura nel tempo e mette alla prova non solo i luoghi, ma anche la comunità che li abita, ben oltre la fase di emergenza. Lo shock causa una “discontinuità sociale totale” perché accanto ai propri cari si perdono i riferimenti territoriali e i rapporti sociali: il disastro assume un carattere totalizzante che volge al disordine e allo spaesamento, per cui fa emergere la necessità di un riequilibrio, talvolta di una ridefinizione o, comunque, di un rigoverno – di sé e del gruppo. Ciò apre un tempo di crisi in cui si tenta una ricomposizione territoriale e sociale, con incertezza e attesa, ma anche con dinamismo e potenzialità: si va alla ricerca di ripari, non solo fisici – dalle macerie, dagli agenti atmosferici e dal freddo invernale – ma anche culturali, nel senso che si desidera un modo per elaborare l’accaduto e per tenere insieme passato, presente e futuro; si brama la continuità nelle rotture o, comunque, si fa ricorso ad una rete connettiva che protegga dallo sfaldamento e tenga insieme le generazioni.
Un primo passo è la «messa in comune del dramma» (Langumier 2008), che da un lato attesta il carattere realmente catastrofico dell’evento e, dall’altro lato, relativizza l’esperienza dei singoli messi in rapporto a quel che hanno vissuto gli altri: l’evento, cioè, viene drammatizzato nella sua globalità, ma allo stesso tempo il dramma individuale viene relativizzato all’interno di un quadro di sventura in cui uno degli estremi è costituito dalle vittime e dai loro parenti. Ciò avviene in svariate occasioni e con diverse modalità e intensità: dagli omaggi istituzionali (il Capo dello Stato ha fatto visita agli sfollati il 29 agosto 2017) ai riti religiosi (dai funerali delle vittime alle messe speciali e alle processioni, passando per alcune manifestazioni folkloriche), dalle interviste ai mass media alla costituzione di un comitato dei terremotati, dai cortei di protesta alla riapertura di un bar tra le rovine.
Si cercano ripari per il presente e se ne ipotizzano per il futuro, a più livelli: alcuni chiedono l’istituzione di un comune unico per l’isola d’Ischia (attualmente divisa in sei comuni diversi) così da facilitare i protocolli ed evitare le ridondanze burocratiche; altri propongono la riapertura dell’Osservatorio Geofisico di Casamicciola e di riconvertirlo in un “Centro Europeo di ricerca scientifica sulla sismicità e il vulcanesimo dell’isola d’Ischia e di tutto il Mediterraneo” (Luongo in: Mazzella 2017); altri ancora auspicano una maggiore efficienza e integrazione delle procedure di protezione civile sull’isola, specie durante la stagione turistica.
Mettere in comune il dramma significa, dunque, narrare e immaginare; il disastro viene declinato in un discorso in cui la ricerca di ripari è una pulsione di vita, tra autodeterminazione e ri-creazione. A questo proposito, due esperienze del primo anno post-sismico casamicciolese sono particolarmente significative: il presidio di piazza Majo e un laboratorio scolastico di scrittura creativa.
La zona del Majo, epicentro di tutti i sismi ischitani dall’Ottocento ad oggi, è un’area completamente ricostruita dopo il 1883 e in cui, attualmente, gli edifici sono di nuovo sventrati o sostenuti da un reticolo di pali e rinforzi. Al centro della piazza, esattamente sulla superficie in cui, fino alla catastrofe ottocentesca, sorgeva la chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena (Luongo et al. 2006), pochi giorni dopo il sisma del 2017 è sorto un presidio di residenti che, nel corso dei mesi, si è progressivamente allargato da una semplice tenda ad una grande baracca con televisore, frigorifero, armadi, tavoli, sedie… Dell’edificio simbolo della vecchia piazza, cuore della Casamicciola storica, da 135 anni non resta che una porzione della parete della navata sinistra, riconoscibile da alcune nicchie in cui sono conservate delle statue di santi cattolici, eppure proprio su quel perimetro gli abitanti del posto hanno voluto rimettere radici, come sottolinea un editoriale di un webjournal locale: «questa gente rimane al Majo perchè si sente smarrita, persa, perchè vuole essere ancora comunità, perchè vuole stare con Franco, con Maria che ha paura pure di se stessa, con Antoniuccio e Ciro, con Duilio e con Fenina che cucina e fa il caffè con Anna a tutte le ore». La loro è una narrazione fisica tra le ferite del territorio, un discorso in cui i corpi fanno da ricucitura della frattura temporale; gli abitanti di piazza Majo non stanno tenendo in piedi una catapecchia, ma, al contrario, stanno ricostruendo il loro riparo identitario, un rifugio che riconnetta ieri e domani, che sia in grado di alimentare vecchie e nuove socialità.
Nel contempo, durante l’anno scolastico cominciato poche settimane dopo il sisma, gli studenti del quarto anno di due licei ischitani, sollecitati da Tommaso Ariemma, il loro docente di filosofia, hanno elaborato numerose storie ispirate alla sera della scossa. Dopo analisi in classe e confronti di stili e trame, i testi sono confluiti in una pubblicazione: “Immaginare ripari. Il terremoto a Ischia del 21 agosto in 19 racconti” (Ariemma 2018). L’esperimento didattico è molto stimolante perché è anche un documento sulla rappresentazione e la percezione del disastro: degli adolescenti di 17 anni hanno elaborato e reinventato un evento che resterà per tutta la loro vita in una dimensione unica, fisso nella memoria e, forse, presente come poche altre giornate:
«[Quella sera,] una volta a letto, dormii molto profondamente, quasi come se il mio corpo avesse voluto darmi un indizio su quella che sarebbe poi stata la tranquillità che avrebbe abitato in me per il resto della mia vita» (Ester, p. 29); «Sento solo il mio cuore che era ed è ancora qui, in questo insieme di mura cadute ma che rappresentano il mio nido, il mio posto, il mio rifugio» (Rossella, p. 102).
Sublimando dinamiche e relazioni, e sviluppando finali alternativi, i racconti degli studenti ischitani narrano sorprese e rinascite:
«Erano di nuovo insieme, incredibilmente. L’isola ferita aveva avuto il potere di farli ritrovare» (Claudia, p. 57); «Erano ancora vivi, ma la casa era crollata. Ci aspettavano anni difficili, ma loro erano ancora con me e io mi sentivo rinato» (Luigi, p. 80).
Come una visione onirica che trasmuta la realtà, la narrativa dei ragazzi ischitani supera il dramma guardando il futuro; il protagonista del racconto “Itaca” è un emigrato che torna a Casamicciola dopo molti decenni, proprio in seguito al terremoto: parte d’impulso dagli Stati Uniti, affronta il viaggio con apprensione, si muove con dolore tra rottami e detriti, eppure alla fine dice che è stato uno dei momenti più belli della sua vita: «È stata una giornata emozionante, mi sono sentito bene come non mai» (Ida, p. 78). Nonostante il paese squassato e i patimenti suoi e dei suoi congiunti, l’anziano rimpatriato ha ritrovato comunque il suo mondo, quello che aveva lasciato da bambino, ma ora non vi ha scorto delle mancanze, bensì qualcosa in più: ha incontrato i suoi nipoti e addirittura i suoi pronipoti, riconoscendoli come suoi simili, ossia come l’avvenire di se stesso e della sua terra.
«Sì, il terremoto c’è stato veramente»
Dopo un anno, giungere alla zona rossa di Casamicciola, nella parte collinare, significa attraversare un “passaggio stretto”, non solo in senso fisico, ma soprattutto simbolico, perché conduce sia all’area disastrata, sia ad un tempo sospeso che si riflette su uno stato d’animo d’incertezza e attesa, di contrizione e tormento. Ai primi di febbraio 2018 piazza Majo, pressoché isolata per i sei mesi precedenti, è tornata raggiungibile con più facilità grazie ad una galleria di lamiere e tubolari lungo via Spezieria, la principale arteria di collegamento con l’abitato costiero del comune, che, ingabbiando gli edifici circostanti, mette in sicurezza il tratto stradale, così da trasformare quello spazio in una enorme soglia. Il tunnel è un percorso sinuoso e in leggera salita, metallico e alquanto buio che, senza voler abusare della formula di van Gennep sui riti di passaggio, come un filtro predispone ad un mutamento di sguardo: percorrendolo, si compie un salto indietro nel tempo, a qualche attimo dopo la scossa, con i tetti collassati, le pareti abbattute, i cumuli di mattoni davanti ai cancelli divenuti sbilenchi e immersi in un silenzio pesante che viene rotto solo al passaggio della camionetta dei militari che presidiano l’area. Gli edifici di piazza Majo sono tutti puntellati, così come tante abitazioni fino alla località Fango di Lacco Ameno, eppure lì, in quello spazio liminale, ad un anno dal sisma non è accaduto altro, il tempo si è fermato o, comunque, ha cominciato a scorrere lentamente, molto più lentamente rispetto al resto dell’isola e del Paese, perché solo un bar ha ripreso l’attività e giusto qualche sparuto residente ha cominciato, autonomamente, un restauro della propria abitazione lesionata.
Ad oltre un anno dal disastro, la burocrazia ha prodotto ben due commissari (il primo all’emergenza, sostituito poi da quello alla ricostruzione), ma nessuno specifico decreto, come pure accadde nel 1884, quando il governo dell’epoca emanò uno specifico “Regolamento Edilizio” per l’isola. Eppure nei 14 mesi trascorsi dal 21 agosto 2017 le occasioni non sono mancate: l’Italia ha avuto due Esecutivi e due Parlamenti, al Senato è stato eletto per un secondo mandato Domenico De Siano, residente sull’isola, ma originari di Ischia sono anche gli onorevoli Giosi Ferrandino al Parlamento Europeo e Maria Grazia Di Scala al Consiglio Regionale della Campania; sui luoghi terremotati si sono recati in visita numerosi politici nazionali, compresi i due più in vista degli ultimi mesi: l’attuale ministro dell’Interno Matteo Salvini a fine marzo – dopo l’exploit elettorale del suo partito, ma prima di ricevere l’incarico nel governo Conte – e il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, in occasione del primo anniversario. Sebbene ricoprendo ruoli diversi e nonostante abbiano presenziato in congiunture politiche differenti, entrambi i leader hanno espresso vicinanza alla popolazione disastrata e volontà di far rinascere i borghi colpiti. Il primo ha posto l’accento sulle procedure perché, come ha dichiarato, «spesso e volentieri il nemico dei cittadini e dei sindaci è la burocrazia», per cui, ha continuato, «nell’Italia che ho in testa ci sono pieni poteri agli amministratori locali in caso di gestione delle emergenze e in caso di gestione dell’ordine e della sicurezza». Il secondo, invece, ha assicurato empatia e impegno nei confronti degli ischitani, i quali «avranno un governo amico», dato che finora «sono stati trattati come terremotati di serie C». Questo impegno è stato ribadito il 6 settembre 2018, quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha visitato a sua volta le zone disastrate e ha lanciato un messaggio: «Basta parlare di emergenza, bisogna ripartire. E oggi siamo qui per dare concretezza alla speranza di tutte queste persone. Abbiamo pronto un decreto per il terremoto di Ischia. Lo presenterò io stesso la prossima settimana in Consiglio dei ministri».
In realtà, delle occasioni concrete per superare polemiche e annunci si sono avute a luglio e a settembre. Il primo caso quando è stato convertito in legge il decreto di iniziativa governativa n. 55 del 29 maggio 2018, “Interventi per le popolazioni colpite dal sisma del 2016”, ossia di Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo, e in cui, come richiesto dalle opposizioni, potevano essere inseriti gli abitanti di Casamicciola Terme, Lacco Ameno e Forio, ma l’emendamento di quattro onorevoli del PD è stato bocciato. Il secondo in occasione della discussione delle Commissioni Parlamentari riunite in merito al ddl 91/2018, “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative”, il cosiddetto “Decreto Milleproroghe”, in cui trenta onorevoli di Forza Italia hanno proposto che le disposizioni di cui all’art. 9 (“Proroga di termini in materia di eventi sismici”, che va ad integrare il ddl 55/2018 convertito) venissero estese anche «ai comuni dell’isola di Ischia in ragione degli eventi sismici verificatisi il 21 agosto 2017», ma anche in questo caso senza successo. Attualmente, dunque, Ischia è fuori da ogni legislazione “ad hoc” per il post-sisma, come invece avevano annunciato Di Maio e Conte, ma è stata fatta rientrare nel “Decreto Genova”, resosi necessario dopo la tragedia del ponte Morandi del 14 agosto 2018. Questo provvedimento, sebbene abbia carattere di urgenza, a metà ottobre risulta ancora molto vago e, secondo Marco Bucci, commissario all’emergenza genovese, nonché sindaco del capoluogo ligure, necessita addirittura di una riscrittura. Al momento, dunque, sul tavolo ci sono ancora solo bozze ed ipotesi, tutte comunque spinose.
Un primo testo, ad esempio, aveva trovato l’opposizione dei sindaci isolani perché le procedure per la concessione e l’erogazione dei contributi ai sinistrati intendeva imporre la presentazione del titolo edilizio, senza tener conto di condoni e di concessioni in sanatoria. In effetti questo è un nervo scoperto che era emerso già durante l’inverno scorso, quando il commissario all’emergenza ischitana Giuseppe Grimaldi aveva diffuso, come da prassi, i moduli su cui i terremotati avrebbero dovuto indicare i danni subiti per la successiva quantificazione del ristoro da parte dello Stato, ma sugli stessi incartamenti avrebbero dovuto indicare – sempre com’è consuetudine – anche eventuali volumi difformi realizzati nel tempo, sicché il risultato odierno è il graduale arenarsi della procedura.
Un secondo testo, quello presentato all’art. 25 del “Decreto Genova”, invece prevede un vero e proprio condono per gli edifici abusivi, sebbene si trovino in aree a rilevante rischio sismico e franoso. Localmente c’è chi lo interpreta come l’unico articolo che apre ad «una occasione e una possibilità», ma di parere diametralmente opposto è Legambiente, per la quale si tratta di «una sanatoria edilizia che metterebbe in pericolo le persone e rilancerebbe nuovi abusi», specie perché sopprimerebbe le norme in materia di tutela paesaggistica e idrogeologica.
Il 21 agosto, ad un anno esatto dal sisma, a Casamicciola Terme e a Lacco Ameno si sono tenute delle commemorazioni istituzionali, come i consigli comunali straordinari delle due località ischitane, che però alcuni avrebbero preferito in maniera congiunta, considerata la comunanza di problematiche; inoltre si sono avute la visita – non annunciata e piuttosto improvvisa – del Vicepresidente del Consiglio Di Maio, la deposizione di una corona di fiori sulle macerie con un minuto di silenzio per le vittime e, infine, una messa solenne alla presenza del vescovo Pietro Lagnese nella piazza della marina. Le principali celebrazioni – civili e religiose – hanno dunque escluso la zona rossa, per cui molti residenti hanno deciso di disertarle, preferendo ricordare le vittime in privato. Considerando la scelta delle autorità come un «ennesimo sgarro alla comunità», il comitato dei terremotati ha fatto sapere di non voler essere nominato, né che si parlasse a suo nome, dacché la decisione di commemorare in maniera autonoma, apponendo cartelli e depositando fiori sulle macerie, lanciando palloncini e lanterne, ma soprattutto ritrovandosi al presidio di piazza Majo.
La commemorazione non è una formalità, serve a ricordare chi non c’è più e a tenere memoria di chi si è salvato, in quel tentativo di ricucitura della frattura con cui si vuole riconnettere tanto i frammenti della comunità quanto il tempo di prima con quello di dopo. Si tratta di un’occasione per riflettere su quel che si era e che si vuole tornare ad essere, magari su quel che si desidera migliorare rispetto al passato; un’opportunità per capire collettivamente cosa si è fatto nel frattempo e, di conseguenza, cosa c’è ancora da fare, per scongiurare che disastri simili si ripetano in futuro, cioè per prendere coscienza delle fragilità in cui si è immersi, così da impegnarsi ad affrontarle con azioni concrete e non solo con dichiarazioni e comunicati. La commemorazione è ripetersi «Sì, il terremoto c’è stato veramente», come ha ribadito per tre volte il vescovo durante l’omelia, perché nel silenzio nazionale è necessario ricordarlo, sottolinearlo e urlarlo; perché finalmente si attraversi quella soglia allegorica del tunnel metallico di via Spezieria che, sebbene non conduca ad alcuna guarigione o nuova nascita come nei riti descritti da van Gennep, può tuttavia stimolare una sorta di iniziazione verso una dimensione altra, di ripensamento del rapporto col territorio e della relazione interpersonale e istituzionale. È una dimensione ancora incerta e lontana, forse utopica, ma è parte di quel “pensare in grande” cui hanno esortato alcuni amici dell’isola durante quest’ultimo anno di latenza e sospensione, di incuria e lontananza, di lotta e resistenza.
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L’autore. Giovanni Gugg è dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali presso l’Università di Napoli “L’Orientale” ed è docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Dal 2014 è “chércheur associé” presso il Laboratoire d’Anthropologie et de Psychologie Cognitives et Sociales (Lapcos) dell’Università di Nizza Sophia Antipolis (Francia). I suoi studi riguardano la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, specie nel caso di territori a rischio. Ha pubblicato in Italia, Francia e Inghilterra; collabora con alcuni dei principali website culturali italiani (Lavoro culturale, Labsus, Wots, Frontiere News, Napoli Monitor) e gestisce – insieme a Clementina Sasso – una pagina Facebook dedicata alla comunicazione del rischio geologico in area napoletana (https://it-it.facebook.com/RischioVesuvio/).
Il fotografo. Michele Amoruso, 33 anni, è fotoreporter da oltre 10 anni. Sin dai primi tempi a lavoro su tematiche che spaziano dal sociale all’antropologico, ha collezionato negli anni centinaia di pubblicazioni internazionali con le maggiori testate mondiali: dal Time al Guardian, La Stampa, Espresso, Internazionale, The Times, Panorama, L’Obs, El Pais, The Telegraph, Wall Street Journal, National Geographic, Famiglia Cristiana e molti altri. Attualmente lavora sulla questione migratoria, che segue da circa 5 anni nei suoi diversi aspetti, ed è autore, anche, di lavori sul tema ambientale e quello dell’indagine territoriale, con una ricerca fotografica su campo delle trasformazioni sociali ed urbanistiche dei luoghi colpiti da terremoto.
*una versione ridotta di questo saggio è apparsa su "Lavoro culturale" ad agosto 2018
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