Quando uno storico deve raccontare una scossa di terremoto, per non rischiare di ridurre a dati asettici e freddi la sua esposizione può ricorrere alla diretta voce dei testimoni e protagonisti; per raccontare uno shock, col suo carico di conseguenze e di implicazioni emozionali, le parole di chi quello shock lo ha provato direttamente sembrano essere più efficaci delle analisi esterne.
Dai racconti orali raccolti emergono alcuni elementi comuni, dettagli e similitudini che aiutano senz’altro lo studioso a tentare una mappatura complessiva delle comunità colpite e interessate dal sisma, anche se per sua stessa natura la testimonianza orale è una fonte delicata, da maneggiare con cura (Bonomo 2013 e Portelli 2007).
Quello più evidente è sicuramente la cesura, il prima e il dopo che il terremoto crea, una separazione netta che divide due epoche, due periodi diversi se non opposti nella biografia di ognuno. A maggior ragione, questa divisione è sancita dalla perdita di persone care, che si aggiunge alla perdita dei riferimenti fisici, dei luoghi e degli spazi della socialità e della vita comunitaria. Come afferma Gabriella Gribaudi, “il terremoto è una cesura che segna la vita delle comunità e delle persone. E la cesura è amplificata dalla memoria. La memoria scandisce il tempo in un prima e un dopo, dilatando le dinamiche che normalmente insorgono con il passare degli anni. Prima c’è la comunità intatta, armoniosa, felice, dopo c’è la disgregazione, la corruzione. […] La nostalgia si colora delle immagini della socialità perduta, della piazza, del vicinato” (Gribaudi 2010, p.88).
Il protagonista delle testimonianze riportate di seguito è il terremoto che colpì il 23 novembre 1980 Campania e Basilicata; le persone intervistate abitavano nei paesi del Cratere.
“Di quei terribili momenti ricordo la scossa interminabile, ma siccome casa mia rimase illesa, così come quella vicina, non ci sembrava che fosse successo niente di grave. Quando però uscimmo fuori e ci girammo verso la piazza, si presentò ai nostri occhi questa immagine: un immenso polverone bianco, spaventoso, macerie ovunque, uno sconvolgimento totale. Nel giro di dieci minuti fummo ricoperti di polvere, sembravamo mugnai, eravamo completamente bianchi. C’era una luna che ti sfidava, che illuminava le macerie, beffarda” (Testimonianza di Arcangela Garofalo, in Ventura 2010, p. 40).
Prima del terremoto le province di Avellino e Potenza erano tra le più povere d’Italia, zone di emigrazione e d’isolamento, eppure nel ricordo di chi le aveva conosciute prima della distruzione provocata dal terremoto emergono descrizioni piene di riferimenti ad ambienti umanamente solidali, comunità coese e semplici.
«Che ti devo dire di ‘sto terremoto, c’ha segnato, c’ha segnato tanto, più che altro perché c’ha levato tutto. Torella era un paese bellissimo prima del terremoto, ci riunivamo in piazza, era piacevole, era proprio bello, poi si è disgregato tutto, chi è partito da una parte, amicizie spezzate, tante cose che adesso, così, da descrivere sono difficili, non riesco. Però è vivo, come ricordo è vivissimo» (Testimonianza di Maria Teresa Imbriani, in Ventura 2013, pag. 113).
«Prima che ci colpisse il terremoto, eravamo una grande famiglia, la quotidianità si condivideva nei quartieri, era un’unica casa. Si lasciavano le porte aperte. Ricordo che la vicina entrava a casa di mia nonna anche quando lei non c’era per lasciarle l’insalata. Oggi lei continua a tenere la porta aperta ma io le dico che deve chiuderla a chiave» (Caruso 2011, p. 132).
Franco Arminio, scrittore irpino che ha incentrato la sua produzione sui paesi e la paesologia, sintetizza in questa massima che parafrasa Tolstoj il senso di paradiso perduto: “Forse le cose stanno così: una volta si era tristi tutti insieme, adesso ognuno è triste per conto suo”(Arminio 2003).
Non è raro trovare, tra le parole che spiegano un imbarbarimento del dopo rispetto al prima, l’arrivo dei soldi della ricostruzione e la creazione di corsie differenziate per accedere a finanziamenti, posti di lavoro e incarichi pubblici. Questa è la descrizione che il parroco del comune di Teora (Avellino), uno dei centri più colpiti, ci restituisce, parlando del periodo della ricostruzione:
«Della ricostruzione devo dire che ho un giudizio purtroppo negativo: non ci si saziava mai; nella ricostruzione privata soprattutto, ricordo come il paesaggio delle campagne, che erano state colpite in maniera molto minore rispetto ai centri urbani, cambiasse e si arricchisse di costruzioni nuove e a volte sontuose. Sicuramente non ci fu sincerità nel dichiarare i danni, e i risultati non sono stati fedeli alla situazione preesistente: chi aveva qualcosa si è ritrovato con molto di più, se ci ha saputo fare; chi aveva molto si è ritrovato con poco.
Anche io condussi la mia battaglia affinché la Chiesa fosse costruita in quello che sarebbe diventato il nuovo centro del paese, e non in posizione marginale. Fui sconfitto. Prima e dopo il terremoto cambiarono i rapporti umani, il terremoto ha segnato una specie di spartiacque. Chi ha avuto i morti ha pianto ed è rimasto scosso, dimostrando a volte una dignità esemplare. Altri hanno imparato ad approfittarsene, se avevano perduto solo la casa o, a volte, neanche quella» (Testimonianza di Don Donato Cassese, Ventura 2006, p. 256).
Le persone più semplici, invece, parlano della ricostruzione come di una lunga attesa nella quale cercare un fioco legame con il proprio mondo prima “dell’apocalisse”:
«Abbiamo atteso la ricostruzione a Materdomini vivendo a casa di una zia. Con mio padre scendevamo in macchina tutte le sere per passeggiare e riappropriarci del nostro luogo. Ci avvinghiavamo alla pietra. Quando però vedevi le erbacce crescere tra le macerie ti accorgevi di quanto tempo stava passando senza che nulla accadesse. E perdevi la speranza» (Caruso 2011, pag.115).
Chi aveva perso, tra le macerie delle case e dei palazzi crollati, parenti e familiari, si rifugiò a volte in una dimensione intima del ricordo che si scontrava e si divaricava dalla vita comunitaria, in ogni sua forma; ogni momento di possibile incontro con la propria comunità diventa il momento in cui si rievoca l’assenza delle persone e dei luoghi di prima, ma allo stesso tempo sembra esserci un senso di colpa per quel vuoto di partecipazione.
«Da quel momento io ho vissuto ventiquattro anni di rifiuto, una sorta di risentimento verso il mio paese, mi sentii sradicata, vedevo la disgregazione di quella comunità e mi sentivo comunque colpevole per la mancanza del mio contributo alla comunità. Per ventiquattro anni ho avuto un rifiuto quasi totale a fare qualsiasi forma di vita sociale, e ancora oggi sento la stessa difficoltà» (Testimonianza di Arcangela Garofalo, in Ventura 2006, p. 253).
Esistono molti altri versanti da affrontare, sulle forme che la memoria e la rievocazione assumono in relazione al terremoto; uno di questi è quello riguardante la memoria dei volontari e soccorritori giunti in massa in Irpinia e Basilicata, dopo le prime, lunghe ore di assenza di soccorso, per portare aiuti e supporto ai terremotati. In questo caso la memoria assume un contorno eroico, uno spaccato momentaneo di vita in cui si decide di dedicare energie e attenzione a persone in difficoltà, sotto shock per la perdita di persone e luoghi cari.
«Il viaggio di ritorno l’ho fatto su un furgone della Croce Rossa, sdraiato dietro su scatoloni di attrezzature. Ero ridotto da sembrare un profugo sfuggito da una zona di guerra. Stivaloni di gomma, giacca a vento e pantaloni lerci, capelli arruffati, barba lunga incolta e zaino militare in spalla pieno zeppo di indumenti sporchi di fango ormai seccato. Attaccato alla giacca, tenevo in bella vista il tesserino di riconoscimento con la mia fotografia dove si poteva leggere “Colonna Mantovana Soccorsi Pro Irpinia”. Lo tenevo in bella vista appuntato sul petto per non essere scambiato per un barbone, ma soprattutto lo tenevo lì per orgoglio» (Testimonianza di Vincenzo Cantarelli, in Gribaudi, Zaccaria 2013, p. 66).
La costruzione della memoria del terremoto e della ricostruzione del 1980 è un processo ancora molto debole. Questa fatica dipende da molti fattori; sicuramente il ritardo e i tempi lunghi della ricostruzione hanno tenuto impegnati privati cittadini e istituzioni fino a qualche anno fa e in alcuni casi continuano a impegnarli, magari distraendo da altre operazioni culturali di tutela e trasmissione di forme memoriali. Molti protagonisti, inoltre, hanno occupato e occupano la scena pubblica del doposisma, rendendo più difficile un complessivo esame dei fatti e dei processi. Ma la debolezza dei tentativi di ricostruzione di una memoria di questo evento è da cercare anche nella rimozione individuale di chi non riesce a rivisitare il dolore, lo shock della perdita e il senso di sconfitta di una ricostruzione in chiaroscuro. I ricordi vengono confinati a una dimensione privata e intima, che in occasione degli anniversari diventa comunitaria ma che non sana le divisioni di cui parlavano le testimonianze citate in precedenza.
La faticosa costruzione di memoria, che a volte assume i contorni della rimozione e dell’oblio, diventa pericolosa perché l’interruzione della trasmissione di conoscenze e saperi, anche in forma orale, tra generazioni che abitano luoghi ad alta pericolosità sismica, rende meno resilienti i cittadini di quei luoghi. La memoria di un terremoto aiuta senza dubbio la prevenzione e aumenta la capacità diffusa di porre argine agli effetti catastrofici di un sisma.
L’altra domanda che emerge riguarda l’atteggiamento di chi è venuto dopo: cosa sa un ventenne, un adolescente di oggi, del terremoto, visto che non ci sono quasi più ruderi, macerie e insediamenti provvisori a costituire un monito visivo e una presenza del sisma?
Queste che seguono sono le riflessioni di un ragazzo lucano, che vive in uno dei paesi colpiti allora dal terremoto, Muro Lucano.
«Il terremoto è qualcosa di reale. È come se lo conoscessimo, dai racconti dei nonni e dei genitori. Ma non avvertiamo la stessa paura che avvertono loro. […] Il terremoto è stato uno spartiacque. Prima del 1980 c’era maggiore equità sociale. Nessuno aveva più soldi degli altri. Dopo il terremoto c’è chi ha costruito palazzi e chi è rimasto allo stesso livello. Il sisma ha portato anche un miglioramento, ma non per tutti. Chi è stato più furbo è andato avanti, le persone più semplici sono rimaste indietro» (Giuseppe Cardillo, in Lucantropi, 2012, p. 21).
«A me l’ha raccontato mia nonna. Si sentiva tremare la terra sotto i piedi. Si affacciò al balcone e vide il campanile della Chiesa di Sant’Antonio oscillare. Mamma, che studiava a Potenza, fu costretta a dormire per tre notti all’aperto. Corleto non ha avuto né morti, né feriti. La vita è continuata a scorrere così com’era prima. Con la sua monotonia. E tuttora si vive con la solitudine nei cuori ed abbiamo tutti lo sguardo vuoto di chi assiste impotente ad un terremoto senza fine, dove tutto finisce di vivere ma nessuno risorge». (Antonella di Noia, in Lucantropi, 2012, p. 16).
L’enorme flusso di soldi pubblici e interventi straordinari ha prodotto risultati circoscritti e limitati, rispetto alle promesse e alle previsioni. Oggi queste sono zone in cui lo spopolamento ha indici preoccupanti, così come il disagio sociale e la disoccupazione; il motivo è da ricercare in errori di calcolo più o meno consapevoli nella scelta di investire risorse in progetti industriali affidati a soggetti estranei alle zone terremotate e inquadrati in un disegno non radicato territorialmente e non collegato alla situazione socioeconomica preesistente. Inoltre, ha pesato non poco la connivenza tra politica, imprenditoria e malaffare, che ha tirato le fila dell’apparato pubblico a livello locale e nazionale per diversi anni, in assenza di controlli e inchieste giudiziarie realmente efficaci prima dell’inizio degli anni ’90.
Forse la voglia di ricordare, sia nei giovani, sia in chi c’era già nel 1980, è poca proprio perché le urgenze e i problemi del presente sono più pressanti e stringenti. La ricostruzione della memoria di quell’evento dimostra quindi di essere doppiamente difficile: chi ha vissuto l’evento e il dolore a esso collegato si rifugia nell’intimità familiare e comunitaria del ricordo. Chi è venuto dopo e dovrebbe esigere chiarezza sugli effetti prodotti dalla ricostruzione vive l’inquietudine e il disagio dei problemi di oggi.
Servirà ancora tempo, probabilmente, per mettere a confronto una memoria diffusa, fatta di tanti spaccati individuali, di tanti segmenti non dialoganti, che faccia da controcanto rispetto a una narrazione pubblica e mediatica forte, che si è alimentata ad ogni terremoto perché ha fatto dell’Irpinia l’esempio da non seguire. Anche se difficoltosa, però, quest’operazione meriterebbe di essere affrontata con energia.
Inoltre, a esigere un’operazione ampia e profonda di recupero e trasmissione di memoria e conoscenze, che dovrebbe riguardare tutte le zone sottoposte ad ogni tipo di rischio, è la fragilità diffusa del territorio italiano. La difesa da eventi naturali potenzialmente dannosi ha però dei costi che possono essere affrontati solo se si ha consapevolezza dei rischi cui si è esposti.
Un terremoto, inoltre, è un evento raro nell’esperienza di vita dei singoli cittadini, che si manifesta nell’arco di poche decine di secondi e quindi non permette nessun tipo di difesa nell’immediatezza dell’evento. E’ per questo che la difesa dal rischio sismico passa attraverso investimenti economici e culturali da organizzare in maniera seria e costante nel tempo.
Ci sono, dunque, aspetti tecnici, aspetti decisionali e aspetti politici che si affiancano al problema culturale affrontato sinora: chi decide, su che base e con quale consenso? E poi: cosa si sceglie di proteggere prioritariamente e qual è il livello di impegno sostenibile per affrontare il problema?
La riduzione del rischio passa quindi attraverso un processo lungo e approfondito che metta in gioco tutta la gestione di prevenzione e previsione di un terremoto e dei suoi effetti (Carnelli, Ventura 2015). Indagare anche le singole memorie di un terremoto può essere utile a chi deve indagarne le possibili conseguenze, agendo in correzione d’errore sia dal punto di vista tecnico-scientifico, sia per quanto riguarda il comportamento delle comunità, di chi decide le linee di sviluppo complessive di un territorio che deve ricostruire dopo una catastrofe, per costruire anche forme di conservazione, tutela e trasmissione della memoria di una catastrofe.
Cosa rimane di trentasette anni di ricostruzione? Penso a una frase letta in un’intervista al sindaco di Teora negli anni del terremoto: gli venne chiesto quale fosse il peggior ostacolo alla ripartenza e lui rispose che “l’assistenzialismo è peggio della peste, perché i malati sono contenti”: i suoi compaesani non sembravano assumere in prima persona l’onere di ricostruire, non si facevano carico come singoli e come collettività di istanze, progetti e segnali chiari su come pensare al nuovo paese. I dati numerici sulla ricostruzione possono essere letti in vario modo, anche se la disoccupazione generale, fermandosi in provincia di Avellino, è attorno al 16% e quella giovanile è al 54%. In molti paesi i dati anagrafici che registrano gli abitanti che vivono altrove sono molto più alti rispetto a quelli che annoverano i residenti in paese: a Cairano siamo al 166%, cioè 326 abitanti in paese e almeno 541 all’estero; Conza della Campania è al 123% (1.770 fuori e 1.373 in paese), Sant’Angelo dei Lombardi (81,6%), ha 3.469 emigrati e 4250 residenti.
Ma saremmo ipocriti a circoscrivere all’Irpinia un problema più ampio, quello della montagna italiana, delle aree del margine: le scosse del 2016 lo hanno riproposto con veemenza, ma non sembra venir fuori una linea programmatica definita che dica cosa vogliamo fare di queste zone. Quello che invece in Irpinia è vivo e si agita è la litigiosità politica, quella tra fazioni avverse e tra campanili, impegnati a difendere dallo smantellamento i bastioni di quel poco che rimane, come gli assediati della fortezza nel deserto dei Tartari di Buzzati. Il terremoto ha creato delle faglie più subdole e invisibili, quelle del rancore tra chi è stato capace di approfittare della cuccagna e di chi non ci è riuscito, tra chi prima non aveva nulla e adesso ha e tra chi prima aveva e poi ha perso quasi tutto. Forse per sanare queste fratture c’è bisogno di tempo, ci vorranno altre generazioni, una classe dirigente e professionale diversa, altri centri di azione e di pensiero. Chi li gestirà e li animerà, però, se in tanti continueranno ad abbandonare le terre del sisma del 1980?
Bibliografia
Arminio F. 2003, Viaggio nel Cratere, Sironi editore, Milano.
Bonomo B. 2013, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nelle ricerca storica, Roma, Carocci editore.
Carnelli F, Ventura S. (a cura di) 2015, Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare, decidere, Roma, Carocci editore, 2015.
Caruso T. 2011, Un popolo da ricostruire. A trent’anni dal terremoto, fiducia e mutamenti sociali in una comunità irpina, in «La fabbrica del terremoto. Come i soldi affamano il Sud», Rapporto 2011 dell’Osservatorio sul Doposisma – Fondazione Mida, Pertosa (Salerno), Edizioni MIdA.
Gribaudi G, Zaccaria A.M. (a cura di) 2013, Terremoti. Storia, memorie, narrazioni, Verona, Cierre edizioni.
Gribaudi G. 2010, Terremoti. Esperienza e memoria, in «Parole chiave», n. 44/2010.
Lucantropi. Tra il dito e la luna scelgo la luna, Pertosa (Salerno), a cura dell’Osservatorio sul Doposisma – Fondazione MidA, Edizioni MidA, 2012.
Portelli A. 2007, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli editore.
Ventura S. 2006, Il terremoto dell’Irpinia del 1980. Storiografia e memoria, in «Italia Contemporanea», n.42/2006.
Ventura S. 2010, Non sembrava novembre quella sera, Atripalda, Mephite edizioni.
Ventura S. 2013, Vogliamo viaggiare, non emigrare. La cooperazione femminile in Irpinia dopo il terremoto, Avellino, Edizioni di Officina Solidale.
L’autore. Stefano Ventura (1980) è nato in Svizzera, è cresciuto a Teora (Avellino) e ora vive a Siena. E’ dottore di ricerca in storia contemporanea all’Università di Siena, coordina l’Osservatorio sul Doposisma (Fondazione MIdA) e insegna Italiano e Storia nelle scuole superiori. E’ curatore del focus “Sismografie” di Lavoro culturale. Si è occupato della memoria e delle conseguenze storico-sociali del terremoto del 1980 in Campania e Basilicata e delle principali catastrofi naturali della storia italiana recente. Ha pubblicato, tra gli altri: “Non sembrava novembre quella sera” (Mephite, 2010), “Vogliamo viaggiare, non emigrare. Le cooperative femminili dopo il terremoto del 1980” (Edizioni di Officina Solidale, 2013) e ha curato, con Fabio Carnelli, “Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi” (Carocci, 2015).
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
Per informazioni e contatti con Lo stato delle cose scrivere qui: osservatoriolostatodellecose
Per essere aggiornati sugli appuntamenti e iniziative dello Stato delle cose potete seguirci anche sui social network seguiteci anche sulla pagina Facebook e sul profilo Instagram ufficiali del progetto.