Cosa intendiamo per “qualità della vita”? Quali sono le condizioni minime per garantirla e assicurarla agli individui? E quale relazione ha la “qualità della vita” con lo spazio, con il dentro e il fuori delle abitazioni e delle persone?
Per rispondere a queste domande ho scelto di partire dal termine “condizione”* che mi sembra possa racchiudere una molteplicità di significati utili a seguire un percorso semantico attraverso il quale analizzare il prima, il durante e il post terremoto.
La sequenza sismica di Amatrice, Norcia e Visso, ha riscritto per sempre le sorti dell’Appennino centrale. È ormai noto cosa avviene dopo un terremoto: le vittime e i salvataggi, le case rotte, i paesi rasi al suolo, gli spazi vuoti e svuotati, i soccorsi, la protezione civile, la solidarietà, il cinismo e il tempo, spesso infinito, della ricostruzione.
Dalle scosse devastatrici di agosto e ottobre sono ormai passati più di 12 mesi, è stata superata la soglia psicologica critica dell’anno. Pianti e commemorati gli anniversari, li abbiamo appuntati e riposti sul calendario. Di quei giorni ricordiamo tutto.
Una catastrofe è quella cosa che, se non ti uccide, ti trasforma in testimone.
Visso, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Il terremoto è un continuo accadere, un costante presente in cui il tempo trascorre lento. Ma il terremoto segna anche il tempo dell’attesa in cui, in molti, siamo rimasti a guardare, fiduciosi che le cose sarebbero andate diversamente, perché questa volta era successo proprio a noi. Ognuno, ogni noi, ogni gruppo, si percepisce come la sintesi di qualcosa di unico. Noi non saremmo stati trattati come l’Irpinia, come L’Aquila, noi eravamo noi e quelle erano le nostre case. Non avremmo potuto tollerare la sofferenza, lo sconforto di tante e tante facce conosciute, degli amici, dei familiari, degli anziani, attoniti di fronte ai crolli.
Capita però che essere identificati con i protagonisti contribuisca ad alimentare negli altri la percezione che, quando qualcosa va storto, quando crollano le case o c’è un incidente, è perché si è commesso qualcosa che ha determinato quelle conseguenze. Ogni vittima appare agli occhi degli altri un po’ complice o un po’ responsabile. Come in una sorta di rito scaramantico, colpevolizzare le vittime serve a scacciare l’idea che gli eventi spiacevoli possano accadere anche solo così, per caso, come una caduta o un inciampo.
“condizione” è la qualità, requisito, situazione o presupposto necessari a un determinato scopo.
Ed è attraverso quel presupposto che si alimenta la responsabilizzazione delle vittime: un processo con il quale, piano piano, si determina una perdita di status delle popolazioni colpite, un’infantilizzazione collettiva che richiede un accudimento paternalistico e che produce una svalutazione dei bisogni e delle istanze. Bisogni che si (ri)affermano e (ri)attualizzano solo quando un avvenimento esemplare riaccende l’indignazione popolare: una nevicata o un tubo che si spacca.
Visso, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Alla base del processo di responsabilizzazione agisce un meccanismo per cui l’entità delle conseguenze viene attribuita anche ai comportamenti e alle azioni di quanti ne sono rimasti colpiti. Tra le persone colpite si distinguono i capaci e gli incapaci, i meritevoli e gli immeritevoli. Su queste categorie vengono approntate le misure di soccorso e di mitigazione degli effetti. Le reazioni all’interno della popolazione sono differenti: alcuni, per condizione o per scelta, optano per la defezione, per l’uscita di scena. Si allontanano, non tanto o non solo fisicamente dal luogo della catastrofe e dallo scenario della partecipazione, ma abbandonano l’opportunità di essere parte attiva del processo di ricostruzione e di progettazione. Altri, quelli più capaci, meno vulnerabili oppure quelli più motivati dalle opportunità che si aprono con la fase post-emergenza, danno vita alla protesta. Si organizzano in comitati e, facendo sintesi delle proprie necessità e dei propri bisogni, cercano uno spazio dove rivendicare il loro diritto di apparizione (Butler, 2017). È tuttavia proprio a questo livello che si realizza la prima iniquità, perché a determinare queste differenze di reazione non contribuisce l’esclusiva volontà degli individui quanto, piuttosto, la loro capacità e la distanza dai luoghi e dai “contenitori” della visibilità.
“condizione” è lo Stato fisico, morale o finanziario di una persona.
Essa varia da individuo a individuo perché differenti sono i profili anagrafici, le caratteristiche economiche, il tipo di lavoro, le condizioni di salute, le relazioni sociali alle quali poter fare riferimento, la capacità di comprendere norme e misure di emergenza dedicate alla popolazione colpita.
Il terremoto agisce quindi come un amplificatore di vulnerabilità e un acceleratore di disuguaglianze, in cui le persone colpite sono chiamate a convertire autonomamente le loro capacità in risultati.
Visso, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Tuttavia, proprio questo fare appello alle capacità individuali è stato identificato con il termine “resilienza” ed è nelle differenti risposte date dalle popolazioni colpite che si sono manifestate le disuguaglianze. Lo Stato, attraverso le misure di protezione civile, ha optato per una eguale distribuzione di mezzi (Cas, Sae, etc.) senza tenere in conto le differenti capacità degli individui di tradurre questi mezzi in opportunità. Amartya Sen e Martha Nussbaum sostengono che il benessere delle persone dovrebbe essere definito e misurato in termini di capacità individuali. In particolare, queste capacità si riferiscono alla libertà effettiva che gli individui esercitano per ottenere ciò che vogliono fare o essere. La sopraggiunta condizione di bisogno determina quindi una contrazione della libertà di tradurre le capacità personali e i mezzi disponibili nei propri progetti di vita.
Alla riflessione sulla libertà e sulla necessità di ripristinare velocemente uno spazio di esercizio autonomo delle proprie capacità si è sostituita la retorica della resilienza e del “rimboccarsi le maniche”. Categorie più semplici e funzionali alla esaltazione di quanti sono rimasti a vivere in condizioni precarie e in alloggi di fortuna e quanti, al contrario, sono stati portati nelle strutture ricettive della costa (alberghi e campeggi). Spesso, è proprio attraverso questo uso irresponsabile di definizioni e categorie che sono nati malintesi e rappresentazioni distorte della realtà. Come ha osservato Pellizzon (2017), la banalizzazione del termine “resilienza” è andata a discapito della riflessione sulla “sostenibilità”, necessaria a valutare la riduzione della qualità della vita sopportata dalle popolazioni colpite. Raccontare storie di “resilienza” emblematiche nei comunicati ufficiali delle istituzioni attraverso i media si è rivelato certamente più efficace e rassicurante rispetto alle molteplici trasformazioni che hanno interessato le vite delle persone colpite dal sisma. Purtroppo, così facendo, si è stilato un ritratto parziale che ha celato la complessità dell’evento catastrofico a discapito della comprensione della realtà e della presa in carico dei bisogni.
L’attenzione si è concentrata più sulla reazione nel breve periodo, enfatizzando i “successi” di alcuni e drammatizzando le “impossibilità” per gli altri, che sul nodo centrale della pianificazione degli interventi di riduzione del rischio e mitigazione del danno, che avrebbero dovuto essere approntati dall’azione pubblica già in una fase pre-emergenziale. Le persone che verranno riconosciute e sostenute nel lungo periodo saranno una parte residuale (anziani, malati, disabili, etc.), poiché non è stata attivata una valutazione multidimensionale dell’impatto sociale né una valutazione di lungo periodo che tenga conto dell’accresciuta vulnerabilità dell’intera popolazione.
Castelsantangelo sul Nera, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Esiste, infine, una terza alternativa alla defezione e alla protesta (Hirschman,1982) ed è quella praticata dagli individui che optano per il silenzio.
Non tutti i silenzi sono uguali. C’è il silenzio di chi, di fronte alla “burocrazia difensiva” degli organi pubblici, si rassegna e attribuisce la causa dei ritardi al comportamento degli impiegati che, di fronte alla complessità di regole e procedure, preferiscono stare fermi.
Poi c’è il silenzio di chi individua nell’esercizio della “burocrazia dell’emergenza”, un eccesso di potere degli organi amministrativi che temendo ritorsioni, accetta di obbedire. Il terremoto, con la sua conseguente e necessaria organizzazione e gestione dell’emergenza, determina una situazione in grado di modificare le relazioni tra gruppi sociali, tra amministratori, funzionari e cittadini, tra la politica e la società civile. Gli amministratori e i funzionari pubblici chiamati a gestire l’emergenza si trovano spesso a sperimentare uno stato psicologico e relazionale differente rispetto alla situazione precedente, soprattutto a livello locale. Milgram (1974) identifica attraverso la categoria della “burocrazia della mente”, quella sospensione della capacità di percepire le proprie azioni, sostituendo la responsabilità del “contenuto” con la responsabilità verso “l’autorità”, cioè la volontà di mostrarsi i più conformi. In un contesto emergenziale, compiere il proprio dovere, far rispettare le regole, la gerarchia e gli obblighi situazionali (imposti dalle circostanze) senza esercitare un vaglio critico, interrompe il fondamentale rapporto di prossimità e condivisione necessario per mitigare le disuguaglianze e correggere le distorsioni dei provvedimenti emanati dell’autorità legittima di più alto grado.
Il silenzio crea uno spazio vuoto che, per osmosi, viene riempito da altre voci che si sovrappongono e confondono i reali bisogni delle popolazioni.
Visso, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Alcune porzioni di popolazione residente si scindono dal gruppo originario e si allontanano; altri nuovi attori si inseriscono nelle relazioni sociali preesistenti, saldando nuovi rapporti, nuovi equilibri. Emergono nuove priorità, nuovi interessi e nuove vocazioni territoriali, quasi mai condivise e partecipate. Il terremoto, che per alcuni è distruttore, per altri diviene dunque creatore di nuove opportunità.
Il tempo di risposta degli individui danneggiati direttamente dal terremoto è certamente più lungo, poiché la riorganizzazione di una vita, di una famiglia, di un lavoro richiede energie e risorse che spesso non viaggiano di pari passo con le misure approntate dallo Stato, troppo spesso inefficaci e anacronistiche.
Visso, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Contributi a pioggia, fondi e donazioni di solidarietà rappresentano le opportunità che potrebbero permettere agli abitanti di restare nel proprio territorio. Eppure mai, come in questo terremoto, la distanza delle popolazioni dai propri territori ha, di fatto, realizzato una sostituzione della popolazione e delle loro istanze. Non tutto il denaro che converge sulle zone colpite dal sisma va a beneficio degli aventi diritto. Le misure a pioggia, troppo generali per sanare le perdite di alcuni e ingiustificate per altri, producono spesso conflitti, gelosie e tensioni sociali. A questo si deve aggiungere l’arrivo dei professionisti della ricostruzione, dell’emergenza, del ripristino e della solidarietà; gli interessi privati, quelli del terzo settore, della cooperazione, e gli interessi personali che, anteponendosi alle esigenze delle popolazioni residenti, si trasformano in priorità. Questi nuovi stakeholder, sono i portatori di interessi che hanno indossato gli abiti delle popolazioni residenti, incarnandone, talvolta, perfino il trauma. Una forma di empatia deprivante che, attraverso la narrazione, ha attivato un processo che ha svuotato le popolazioni del loro sentimento di attaccamento al territorio, dell’intimità delle proprie decennali interrelazioni comunitarie, rendendo tutti stranieri ai loro luoghi e alle loro persone. Lo spazio lasciato vuoto dagli sfollati è stato ormai riempito e al loro ritorno le popolazioni locali ritroveranno una nuova organizzazione sociale, una nuova geografia economica e politica che non avranno contribuito a creare. Una forma di estraneità ulteriore che si sommerà alla trasformazione del paesaggio e delle architetture.
Se la partecipazione è condizione fondamentale delle relazioni tra cittadini e Stato, tra residenti e amministrazioni pubbliche, deve essere condizione fondamentale anche nella realizzazione di progetti orizzontali che le varie associazioni portano sui territori.
“condizione” è la proposta di una delle parti alla cui accettazione è subordinata l’attuazione di un accordo.
La partecipazione è la condizione essenziale per una ricostruzione sostenibile. Partecipare alle scelte immodificabili, che produrranno effetti permanenti sul territorio, sul benessere della collettività, sulle relazioni sociali, sul valore dei beni immobili e sui patrimoni, è la condizione imprescindibile per mantenere la popolazione in sicurezza. Ma è anche il requisito fondamentale per non trasformare una catastrofe naturale in una catastrofe sociale.
Visso, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Solo una ricostruzione condivisa, capace di intercettare il desiderio e le aspirazioni della maggioranza dei residenti, potrà garantire la sopravvivenza dei borghi più colpiti dal terremoto. Governare, decidere, amministrare senza le popolazioni è certamente più facile e determina, nel breve periodo, minori costi di transazione per tutti gli attori. Eppure, nel lungo periodo, potrebbe rappresentare un forte elemento di criticità, perché proprio le decisioni, le scelte di indirizzo fatte senza l’ascolto delle popolazioni, aumenteranno il rischio per questi territori di trasformarsi in aree economicamente e socialmente marginali. Alle macerie dei palazzi si sommeranno allora le macerie sociali, le macerie delle tante iniziative estemporanee, le macerie delle “buone” intenzioni e dei protagonismi, le macerie delle nuove alleanze e dei conflitti.
In diritto, la “condizione” è l’efficacia del negozio giuridico ovvero il suo venire meno.
Mantenere la promessa fatta alle popolazioni colpite dal sisma: questa deve essere la condizione. Perché, a ottobre 2016, lo Stato ha stretto un patto con le popolazioni, e il suo venire meno produrrebbe una riduzione di democrazia e di libertà.
Visso, maggio 2017. Foto di Antonio Di Giacomo
Temo, però che nell’arco dei prossimi 5-7 anni, cominceremo a realizzare che anche noi siamo come gli altri, come l’Irpinia e come L’Aquila, dove una vera ricostruzione e messa in sicurezza delle popolazioni non si è mai realizzata. Dovremo allora fare i conti con gli abitanti rimasti. I più fragili, i più vulnerabili, quelli che non hanno potuto che scegliere di restare nelle Sae, che non si sono riallocati nel mercato del lavoro o che sono troppo anziani per poter riprogettare la loro esistenza altrove. Il terremoto e la ricostruzione non saranno più tema di attualità utile alla competizione elettorale. Si normalizzeranno le macerie, si chiuderanno i rubinetti dei fondi per la rivitalizzazione delle zone colpite, si dimenticheranno i prodotti tipici, i festival, le camminate, le montagne, perché sulla scena appariranno altre emergenze.
Saranno stilati nuovi patti con le popolazioni, nuovi accordi che avranno tempi e modi definiti. Si raccoglierà ancora una volta la fiducia delle popolazioni sulle promesse che lo Stato fa attraverso la politica.
Ogni terremoto, come qualsiasi catastrofe, se non ti uccide, ti trasforma in testimone e se, col passare degli anni, per molti, questo terremoto, quello della sequenza sismica di Amatrice, Norcia e Visso, sarà dietro le proprie spalle, per chi si è trasformato in testimone il tempo della ricostruzione sarà sempre davanti ai propri occhi, come per i testimoni dell’Irpinia e de L’Aquila.
Tuttavia, un terremoto, oltre a essere un eccezionale evento naturale, è anche una metafora delle trasformazioni sociali in corso. Come un acceleratore temporale è in grado di mettere in luce i “nuovi rischi sociali” e le vulnerabilità che minacciano la qualità della vita e il benessere delle popolazioni.
In fisica, la “condizione” è lo stato di un sistema definito dall’insieme dei valori delle grandezze che lo caratterizzano.
Pertanto, questo Paese è anche i suoi terremoti.
*Le voci del termine “condizione” sono tratte dal vocabolario online Treccani
Bibliografia
L’autrice. Silvia Sorana, attualmente è assegnista di ricerca in Sociologia dei processi economici e del lavoro presso l’Università di Macerata. A febbraio 2015 completa un dottorato di ricerca in Analisi delle trasformazioni economiche e sociali presso l’Università Politecnica delle Marche. Ha una laurea specialistica in Cooperazione allo sviluppo nell’area euromediterranea conseguita presso l’Università di Macerata. È cresciuta a Visso, uno dei borghi più colpiti dal sisma dell’ottobre del 2016. Lì viveva e lavorava tutta la sua famiglia, oggi trasferita sulla costa marchigiana, in attesa della ricostruzione del paese.
[…] e due. Due segnalazioni, oggi: un importante intervento di Silvia Sorana su Lo stato delle cose. E un sito da seguire: una collezione di volti e storie che Mauro Pennacchietti, con paziente e […]
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