Il Vesuvio non è solo un vulcano, è una fucina di immaginario: per Antonio Nazzaro è uno «straordinario monumento geologico»; per Giuseppe Galasso è una «personalità storica»; per Dieter Richter è «la camera magmatica della memoria dei napoletani». Per Giordano Bruno, nel XVI secolo, il Vesuvio è «il padre della Campania» e, infatti, gli abitanti della zona gli danno ancora oggi del tu, come traspare dalle poesie popolari e dalle canzoni tradizionali: «Tu tien’ ‘mman a te ‘sta vita meja. […] L’unica verità pe’ tutti quanti sarria chell’ ‘e fuì, ma po’ addò jamm’?» (Tu hai in mano la mia vita. […] L’unica verità per tutti sarebbe quella di fuggire, ma poi dove andiamo?), cantano ‘E Zezi in una celebre tammurriata. Appunto, dove andiamo? Per capirlo bisogna sapere da dove veniamo, per cui questo articolo ha l’obiettivo di fissare qualche data del recente passato, in modo da immaginare più agevolmente i possibili scenari futuri.
L’ultimo ciclo eruttivo: tre secoli di attività vulcanica, dal 1631 al 1944
Dal punto di vista geologico, il Vesuvio è uno stratovulcano, ossia uno di quei vulcani dai pendii molto ripidi che entrano in attività piuttosto raramente, talvolta anche dopo alcuni secoli di quiescenza, ma che espellono in maniera estremamente violenta enormi masse di cenere e relativamente piccole quantità di lava molto viscosa. La sua origine risale a 39.000 anni fa e in base al suo comportamento eruttivo passato, le eruzioni vesuviane sono state classificate in tre categorie: “pliniana”, la più forte, dello stesso tipo di quella del 79 d.C. descritta da Plinio il Giovane a Tacito (da cui il virgolettato del titolo di questo contributo); “sub-pliniana”, meno violenta, ma comunque molto distruttiva, come quella del 1631; “stromboliana”, di potenza ancora inferiore, ma più frequente, almeno fino al 1944. L’alternanza tra queste diverse tipologie di eruzione scandisce dei periodi di centinaia di anni in cui il vulcano è visibilmente attivo, seguiti poi da fasi di quiescenza altrettanto lunghe. Tali cicli sono inaugurati da una violenta esplosione di tipo pliniano o sub-pliniano che ha l’effetto di aprire il condotto principale del cratere, rendendo così possibili eruzioni successive di tipo effusivo, che si concludono con una “eruzione finale” che, inducendo uno sprofondamento del cono, chiude di nuovo il focolaio magmatico.
Dopo una fase di quiescenza di almeno cinque secoli, l’ultimo ciclo è iniziato con la grande eruzione del 1631 e si è concluso con quella del 1944. Con l’esplosione del XVII secolo non è cambiato solo il comportamento del Vesuvio e la sua morfologia, bensì anche l’atteggiamento dei vesuviani nei suoi confronti, nonché l’interesse degli europei, che da allora hanno cominciato a viaggiare ai piedi del vulcano in quello che sarebbe stato chiamato “Grand Tour”. È da quella data che il vulcano diventa lo stereotipo paesaggistico di Napoli e in cui prende il via una vasta produzione scientifica: fino a quell’epoca i terremoti e le eruzioni erano fenomeni ancora piuttosto oscuri e, grazie alle esperienze accumulate, nel 1845 viene inaugurato l’Osservatorio Vesuviano, il primo ente vulcanologico al mondo. Inoltre, con la scoperta delle antiche città sepolte di Ercolano e Pompei, a metà del XVIII secolo, il Vesuvio diventa una meta quasi obbligata per i viaggiatori del continente: si inerpicano fin sul cratere, visitano gli scavi archeologici e il museo ercolanese (poi trasferito all’attuale Museo archeologico nazionale di Napoli), assistono «allo spettacolo pirotecnico delle sue esplosioni, affascinante soprattutto di notte» (Gasparini 2006). Il Vesuvio, cioè, diventa un’attrazione turistica, magnificamente celebrata dalla costruzione nel 1880 della famosa funicolare, distrutta e ricostruita più volte e poi definitivamente demolita nel 1993.
Le due facce del disastro vesuviano nel Novecento: prima e dopo il 1944
A tutto ciò fa da sfondo un costante incremento demografico della zona vesuviana che, per quanto abbia avuto intensità diverse, accelera soprattutto negli ultimi anni dell’Ottocento, quando l’aumento medio della popolazione nella fascia costiera tra Torre del Greco e Torre Annunziata è di circa il 40%, grazie allo sviluppo di piccole realtà industriali, come quelle del corallo e della pasta. Il numero degli abitanti nei comuni vesuviani nel 1906 è di circa 240mila persone, mentre nel 1944 è di circa 350mila residenti. Tuttavia, nei decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale e all’ultima eruzione, il numero di chi vive in quell’area è cresciuto ancora, sempre più rapidamente, portandosi a 700mila persone. Come canta la strega Vesuvia nel film di animazione “Totò Sapore e la magica storia della pizza” (di Maurizio Forestieri, 2003), «ma che avranno mai da essere così allegri questi napoletani?».
La distruzione (1906-1944)
Nella prima metà del XX secolo il Vesuvio ha distrutto vite, campi agricoli e centri urbani in tre occasioni: nell’aprile 1906, nel giugno 1929 e nel marzo 1944. L’eruzione più forte e drammatica è la prima, dal 4 al 22 aprile, che causa 216 morti e 112 feriti gravi, oltre 34mila sfollati e ingenti danni in diversi versanti del vulcano (Nazzaro 2001): sul lato meridionale, per le lave che arrivano a Torre Annunziata e a Boscotrecase (dove seppelliscono la frazione Oratorio); sul lato settentrionale, per le ceneri che cadono su Ottaviano e San Giuseppe Vesuviano.
In quest’ultimo paese, la sera dell’8 aprile, avviene una tragedia nella tragedia: la quantità di cenere accumulatasi sul tetto dell’oratorio dello Spirito Santo è tale che crolla sotto il suo peso, uccidendo 197 persone e ferendone altre 71 che lì si erano riunite per pregare: «Alle nove e un quarto, mentre il sacerdote esponeva alla folla la statua di S. Antonio, il tetto crollò tutto di un pezzo. S’udì un rumore terribile e centinaia di grida strazianti echeggiarono per l’aere circostante. L’Oratorio era crollato, rimanendo in piedi la sola sacrestia. […] Circa un centinaio di persone, che si trovavano vicini all’uscita, riuscirono a fuggire; gli altri rimasti indietro furono abbattuti inevitabilmente da un torrente di sabbia che pioveva dal tetto squarciato» (Il Giorno, 9 aprile 1906, cit. in Ricciardi 2009). Una sciagura simile accade due giorni dopo: la mattina del 10 aprile collassa la tettoia del mercato di Monteoliveto, nell’attuale piazza Carità di Napoli, in cui si contano 11 morti e 30 feriti: «Alle 7:35 si è inteso uno scricchiolio all’angolo sud della tettoia: qual-cuno ha guardato in su, ma la maggior non vi ha fatto molto caso. Un minuto dopo tutta la tettoia cadeva con un fracasso orrendo, in una confusione di spranghe di ferro, di pezzi di legno, di terriccio. […] È stata una scena di orrore indicibile e quelli che sono rimasti incolumi per somma sciagura sono assai pochi, facendo ressa per uscire calpestarono i rimasti sotto le macerie» (Il Giorno, 11 aprile 1906, cit. in Ricciardi 2009).
Come scrive Carlo Avvisati, in quell’occasione il Vesuvio «perse la testa», infatti il Gran Cono si abbassa di 200 metri e lo sconcerto della devastazione coinvolge tutta la nazione, raggiungendo anche gli Stati Uniti, dove il tenore Francesco Daddi, sul tempo e sulla musica della canzone “Torna a Surriento” pubblicata l’anno precedente, registra “’O Visuvio 1906”, probabilmente la prima ed unica canzone dedicata a quell’evento: «Che ruvina, che dulore / che sventura, che turmiento / ll’aria è chiena de lamiente / mò se chiagne a ccà e a llà / ‘o Visuvio da luntano / jetta lava e caccia fuoco / e distruje a poco a poco / ‘sti villagge e ‘sta città» (Che rovina, che dolore / che sventura, che tormento / l’aria è piena di lamenti / ora si piange qua e là / il Vesuvio da lontano / getta lava e fuoco / e distrugge a poco a poco / questi villaggi e questa città).
Sebbene non interrompa la sua attività, il vulcano torna a provocare danni dopo oltre due decenni, dal 4 al 10 giugno 1929, quando la lava devasta 54 case coloniche dei borghi di Pagani e Avini, nel comune di Terzigno; ma è soprattutto per l’eruzione che avviene dal 18 marzo al 7 aprile 1944 che il Vesuvio è attualmente ricordato, ossia quando una grossa colata di magma cancella due terzi dei paesi di San Sebastiano e di Massa di Somma, e il crollo dei tetti per il peso delle ceneri causa la morte di almeno 24 persone tra Nocera, Pagani e Terzigno.
Quest’ultima eruzione è raccontata e analizzata in un gran numero di pubblicazioni, da quelle storico-locali ai saggi accademici, dalle guide turistiche alle opere più squisitamente letterarie (si pensi, ad esempio, a Malaparte, Lewis e Roblès), ma sono soprattutto le fotografie e i filmati ad averla fissata negli occhi e nella memoria: nei primi mesi del 1944, nel pieno della seconda guerra mondiale, la città di Napoli e il Vesuvio sono sotto il controllo delle forze armate Alleate, mentre il fronte bellico si è spostato verso Cassino nel tentativo di assediare Roma. La zona vesuviana, con gli aeroporti di Capodichino e Terzigno, è una grande base aerea statunitense, frangente che fa sì che gli Alleati abbiano un ruolo tanto nella gestione dei soccorsi, quanto nella documentazione dell’evento eruttivo: in un’epoca di orrori bellici in cui l’apparecchio fotografico e la cinepresa non sono (e non possono essere) ancora di massa, quel vasto corpus di immagini (Combat film e scatti fotografici realizzati da autori come John Huston, Billy Wilder, Melvin C. Shaffer e George Rodger) costituisce un vero e proprio reportage collettivo, una preziosa testimonianza sugli effetti della calamità, sull’organizzazione istituzionale e sulla risposta popolare (Pesce – Rolandi 1994).
La costruzione (1944-1995)
Come scrive Giovanni Pietro Nimis, «quello della ricostruzione è il momento più critico», quello in cui si tenta di recuperare un rapporto col territorio, di sanarne le ferite causate dal disastro. Ma, proprio come in un pronto soccorso ospedaliero, se non c’è una giusta diagnosi e se non si individua una terapia adeguata, il problema può peggiorare fino ad aggravarsi seriamente. Intorno al Vesuvio, a partire dagli anni Cinquanta, ci si trova nella preoccupante situazione in cui la riedicafizione post-eruttiva (post-bellica e, dopo il 1980, anche post-sismica) non si è limitata al recupero di quanto sommerso dalla lava o raso al suolo dai crolli, avvenuti per il peso della cenere sui tetti, per i bombardamenti, per le scosse telluriche, per la fatiscenza delle strutture. Piuttosto, la ricostruzione si è tramutata in una urbanizzazione estesa e disordinata – specie sulla fascia costiera – che ha fuso tra loro i centri abitati, costruendo una «città vesuviana» (Vella 2002) senza piano e senza ratio, tra vuoti legislativi, deroghe normative e abusivismo: un vasto «sfasciume urbano» che ha creato «paesaggi di paura» (Lamberti 2011). Come osserva Diane Davis per il post-terremoto di Città del Messico nel 1985, «la ricostruzione non è necessariamente il recupero (o viceversa) e la resilienza non è sempre una buona cosa (anzi, può anche essere una cosa negativa)». Così, bisogna attestare che le attuali dimensioni dell’urbanizzazione vesuviana sono la principale forma di esposizione al rischio, oltre alla vulnerabilità sociale e alla fragilità edilizia. Il caso vesuviano si inscrive in un quadro regionale in cui, tra il 1960 e il 2000, a fronte di una crescita demografica intorno al 20%, le aree urbane sono quintuplicate: da 20.000 ettari di città a 100.000, quasi tutti in pianura e intorno ai vulcani (Di Gennaro 2012), al punto che nei comuni vesuviani si registrano tra le più alte percentuali di urbanizzazione d’Italia: Napoli è urbanizzata al 75%, San Giorgio a Cremano al 76,04%, Portici all’83,88%, Torre Annunziata all’84,28% (Rossi 2014).
La bulimia cementizia della seconda metà del XX secolo è dunque un nuovo disastro, silenzioso e invisibile, nel senso che, divorando e saturando lo spazio, ha segnato una rottura nella relazione con l’ambiente. La cinta urbana intorno al vulcano non ci dice (solo) quanto siano in pericolo centinaia di migliaia di persone, ma innanzitutto quanto il Vesuvio sia assediato da un modello urbano ed economico rapace ed erosivo, miope ed improvvido (Gugg 2015). Non è forse questo il motivo per cui piange il “gigante della montagna”? Lo canta Sergio Bruni in uno struggente brano del 1967: «Chi è ca chiagne? È ‘o gigante d’‘a muntagna. Ma comme se lagna, comme se lagna, comme se lagna! Teneva ‘o fuoco dint’‘e vene e mò viv’appena» (Chi è che piange? È il gigante della montagna. Ma come si lagna! Aveva il fuoco nelle vene ed ora vive appena).
La pianificazione dell’emergenza: dal 1995 il futuro si è fatto presente
L’atteggiamento verso il vulcano comincia lentamente a cambiare dopo l’emergenza bradisismica del 1983 a Pozzuoli: nel 1986, infatti, l’allora direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Giuseppe Luongo, sottolinea la necessità dell’elaborazione di un piano di evacuazione dell’area vesuviana in caso di eruzione e sottopone una relazione in merito alla prefettura di Napoli. Tra il 1991 e il 1993 vengono tracciate le linee guida per la valutazione del rischio onde poi iniziare ad abbozzare un Piano di Emergenza Nazionale, il quale è presentato pubblicamente il 25 settembre del 1995. Il Nepva (National Emergency Plan for Vesuvius Area) prevede uno scenario di rischio (un’eruzione sub-pliniana, come quella del 1631) che determina delle specifiche perimetrazioni delle minacce (le zone rossa, gialla e blu), che a loro volta comportano dei gemellaggi tra i comuni più direttamente esposti e le regioni d’Italia. Un primo aggiornamento del Piano si ha nel 2001 (viene ridotto il margine di tempo necessario alla previsione dell’eruzione da due ad una settimana) e un secondo adeguamento risale al 2013 (viene definita una nuova zona rossa e dei nuovi gemellaggi). Accanto a ciò vengono disposte alcune misure di completamento: vengono organizzate delle esercitazioni di protezione civile (quasi sempre su scala comunale e solo nel 2006 su scala più ampia; si tratta del progetto Mesimex: Major Emergency Simulation Exercise); viene emanata dal Consiglio Regionale campano una legge per il blocco totale dell’edilizia a scopo residenziale nella zona rossa (la n. 21 del 2003); viene avviato un progetto di diradamento antropico denominato “VesuVia” (che, tuttavia, fornisce risultati molto scarsi, finendo per essere abbandonato dopo pochi anni). L’ultima tappa di questo percorso, per ora, si è avuta nell’ottobre 2016, quando è stato presentato il Piano di Evacuazione, ossia l’insieme delle procedure con cui – in 72 ore – la Protezione Civile e la Regione Campania intendono portare in salvo i 700mila abitanti della zona rossa in caso di allarme vulcanico.
Nel 1995, certificando il territorio come “a rischio”, comincia a cambiare sia la relazione dei residenti con il territorio, sia quella che costoro hanno con il tempo. Da un lato, infatti, in quello stesso anno viene istituito l’Ente Parco Nazionale del Vesuvio, che ha una perimetrazione più piccola rispetto alla zona rossa, ma ne è in qualche modo un cerchio concentrico. Dall’altro lato, la “catastrofe futura” si trasforma: non è più un’eventualità ipotetica ma, in qualche misura, è ufficialmente annunciata. In altre parole, gli scenari del futuro condizionano il presente: producono norme, stabiliscono condotte, determinano rapporti, si fanno realtà (Gugg 2015). Tuttavia, ad oltre venti anni di distanza, va constatato che per superare l’oscurità di questa minaccia e illuminare una più serena ed equilibrata convivenza col vulcano, c’è un percorso ancora lungo da seguire: la sola logica emergenziale, infatti, risulta non solo un freno alla possibilità di una collettiva “conversione” (ecologica, sostenibile, rispettosa, lungimirante) nel rapporto coi luoghi, quanto addirittura un ostacolo perché sembra arrestare lo sviluppo di metodi differenti e punti di vista alternativi. Fuggire in caso di allarme è indiscutibile, per cui tale eventualità va senza dubbio organizzata al meglio, eppure il concetto basilare su cui bisognerebbe convergere è che il rischio è un prodotto storico; solo questo permetterebbe di attenuarlo e ridimensionarlo, vincendo innanzitutto il disfattismo e l’ineluttabilità. Naturalmente, ciò significa andare oltre la nozione di “cultura del rischio” (ossia la necessità di essere ininterrottamente preparati al disastro, secondo un vero e proprio mito, quello della sicurezza) (Revet – Langumier 2013) e comprendere, piuttosto, la valenza politica del tema, ossia il bisogno di realizzare una riappacificazione con l’ecosistema, una progettazione condivisa dell’emergenza futura, una gestione partecipata del territorio, un dialogo tra istituzioni e popolazione che favorisca lo scambio, le esperienze, il coinvolgimento (Gugg 2017).
Tutto ciò ha avuto un drammatico banco di prova nell’estate del 2017, quando numerosi incendi hanno bruciato un terzo della superficie del parco nazionale: un enorme disastro provocato dall’uomo (per dolo, casualità, negligenza o noncuranza) che ha impoverito e reso ancor più fragile il territorio vesuviano, esponendolo a ulteriori possibili calamità (colate di fango, smottamenti, inondazioni). Il vasto rogo che ha avvolto il vulcano ha reso lampante l’inadeguatezza, l’impreparazione, l’insufficienza, il ritardo della pianificazione, della prevenzione, dell’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, a tutti i livelli. Fanno ben sperare, tuttavia, i tanti volontari spontanei che hanno contribuito a spegnere le fiamme e ad assistere le persone e gli animali distribuendo cibo e acqua nelle zone inaridite dal fuoco, così come le associazioni locali che – in un impeto d’orgoglio – sono tornate ad occuparsi del territorio (Gugg 2018), magari declinando con più determinazione di prima quel che, con introspezione e delicatezza, Sufjan Stevens canta dall’altra sponda dell’Atlantico: «Vesuvius, I’m here. You’re all I have» (Vesuvio, sono qui. Sei tutto ciò che ho).
Il Vesuvio brucia: il disastro degli incendi nel Parco nazionale del Vesuvio a luglio 2017 nel reportage di Giuseppe Carotenuto
Bibliografia
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Di Gennaro A., 2012: La misura della terra. Crisi civile e spreco del territorio in Campania, Clean, Napoli.
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Gugg G., 2018: «Con lingue di foco ei par che gridi». Il Vesuvio, fucina di natura e immaginazione, in B. Terracciano (a cura di), Geoaffetti. Narrare la nostra terra, CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale), Sorrento.
Lamberti A., 2011: Lo sfasciume urbano ha creato paesaggi di paura, «Il Mediano», 26 gennaio, http://www.ilmediano.com/LO-SFASCIUME-URBANO-HA-CREATO-PAESAGGI-DI-PAURA/ (consultato il 19 marzo 2018).
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Canzoni (in ordine di citazione)
‘E Zezi, “Vesuvio”, 1997: https://youtu.be/QOoSE5fNEzI
Enzo Avitabile, “Quann ‘o Vesuvio”, 2007: https://youtu.be/MGHknvWl-UM
Mario Lanza, “Funiculì funiculà” (1880), 1961 (postuma): https://youtu.be/mqCRSgFIN98
Pietra Montecorvino, “Vesuvia” (dal film “Totò Sapore…”), 2003: https://youtu.be/1XcHmPOfLAw
Francesco Daddi, “O Visuvio”, 1906: https://youtu.be/DEGniFtSLjA
Sergio Bruni, “’O Vesuvio, ‘o gigante da muntagna”, 1967: https://youtu.be/CnPDufQQumo
Sufjan Stevens, “Vesuvius”, 2010: https://youtu.be/aTsDcjHj54M
L’autore. Giovanni Gugg è dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali presso l’Università di Napoli “L’Orientale” ed è docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Dal 2014 è “chércheur associé” presso il Laboratoire d’Anthropologie et de Psychologie Cognitives et Sociales (Lapcos) dell’Università di Nizza Sophia Antipolis (Francia). I suoi studi riguardano la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, specie nel caso di territori a rischio. Ha pubblicato in Italia, Francia e Inghilterra; collabora con alcuni dei principali website culturali italiani (Lavoro culturale, Labsus, Wots, Frontiere News, Napoli Monitor) e gestisce – insieme a Clementina Sasso – una pagina Facebook dedicata alla comunicazione del rischio geologico in area napoletana (https://it-it.facebook.com/RischioVesuvio/).
Il fotografo. Giuseppe Carotenuto nasce a Pompei nel 1984 ed è fotogiornalista freelance. Grazie al padre, appassionato di fotografia, all’età di dodici anni si avvicina alla professione, iniziando come assistente di un fotografo di cerimonie nel paese dove è cresciuto, Boscoreale. Dal 2004 al 2007 è fotografo per l’ufficio pubblica informazione dello Stato Maggiore dell’Esercito. Lasciato l’esercito inizia a collaborare con agenzie fotografiche italiane e internazionali. I suoi reportage vengono pubblicati dalle maggiori riviste italiane e straniere come Vanity Fair, L’Espresso, Panorama, Le Monde e Stern. Il 24 Agosto 2016, è stato uno dei primi fotografi ad arrivare ad Amatrice e le sue foto, oltre ad essere pubblicate da L’Espresso, sono state scelte da Time Magazine.
Da qualche anno, il forte desiderio di riallacciare il cordone ombelicale con la sua terra, è diventato motivo di ricerca e scrittura per la realizzazione del suo primo docufilm sul Vesuvio e i vesuviani. Si tratta di un’opera prima che metterà in scena la vita del popolo vesuviano, attraverso i volti di chi lo studia, di chi ha deciso di non lasciare la sua terra e di chi, attraverso la fede, crede che ancora una volta sarà protetto dalla lava del Vesuvio.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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