Lo vedo spuntare dal buio. Viene avanti senza torcia. La sagoma del piumino bordeaux, la barba lunga e nera, sfumata di bianco, incassata nel cappuccio. L’andatura è molleggiata, un po’ da guappo. Gli occhi sottili di gioia. Enzo.
È fine settembre 2016. Io sono appena tornato dall’altro capo del mondo, la Cina. Il mondo di Enzo, invece, non esiste più. Conosco la sua storia, me ne ha parlato Virginia, una amica aquilana andata a prestare aiuto ad Arquata del Tronto come volontaria del Gus, e ho letto un articolo su di lui dal blog Ho passato la frontiera. «È un pazzo» mi ha detto Virginia «sembra proprio di rivedere…» e ha pronunciato il nome di un amico con cui condividemmo il post terremoto all’Aquila e che purtroppo a quel post terremoto non sopravvisse. Forse per questo motivo, Enzo mi pare incarni, visto dall’altro lato del Gran Sasso, una specie di barlume d’umanità nel caos massmediatico del nuovo doposisma. Mi pare incarni una speranza.
Ci saluta con grazia, una voce nasale, sia i volontari del Gus che sono andati a portargli la cena sia i militari messi a guardia della zona rossa di Pescara del Tronto, il paese di Enzo. Ringrazia più di una volta per il pasto. Sembra timido.
Abbiamo solo pochi minuti per fare conoscenza. Gli rivelo che sono lì per conoscerlo e lui tradisce un po’ d’emozione. Per lo più parliamo di sassi, la passione di Enzo, sassi antropomorfi, sassi che ricordano oggetti. Li colleziona. I suoi sassi ormai sono tutti schiacciati da altri sassi. Non è rimasta che qualche foto, dice Enzo, che però promette di farmi vedere se dovessi tornare a trovarlo.
Quando ho il piacere di conoscerlo, Enzo vive già da un mese tra i resti di Pescara del Tronto; è l’unico a non aver lasciato il paese.
Pescara del Tronto, settembre 2016. Fotografia di Antonio Di Cecco
Torno a trovarlo il weekend successivo. A pranzo, ai volontari del GUS è consentito accedere in zona rossa e trascorrere qualche minuto con Enzo. Porto un regalo: un sasso proveniente da Mutianyu, è un pezzo di Muraglia Cinese. Lui mi mostra orgoglioso le uniche due foto che ha recuperato dalle macerie: in una è raffigurato un sasso che sembra un volto umano.
Pescara del Tronto è deserto. Nella parte alta, l’unica accessibile, Virginia mi indica la casa di Enzo. Metà è in piedi, metà è il cumulo di macerie sopra una Punto rossa bordeaux, l’auto di Enzo. Enzo quella notte si è salvato perché si è addormentato sul divano in cucina. In tutto il paese, le case ancora ritte si contano sulle dita di una mano. Vedo un portone aperto sul vuoto. Di sotto le case si sono come sciolte, scivolando verso la via Salaria. D’intellegibile non c’è che qualche frammento di tetto e una piazzetta, in fondo, con alcune auto parcheggiate e ormai in trappola.
Enzo si è accampato con una tenda della Quechua nel giardino di una casa isolata dalle altre, danneggiata ma non troppo. Vicino c’è una piccola rimessa di legno e lamiera con dentro una Fiat Seicento azzurrina anni ’60. In alto, incombe il cavalcavia della S.S.685, la strada che collegava Arquata a Norcia prima che il terremoto danneggiasse le gallerie. In sottofondo un rumore costante, è acqua che sgorga prepotente da un declivio al margine della strada e allaga tutto. La forza del terremoto ha stroncato anche le tubature d’acqua sorgiva.
Pranziamo insieme; Enzo ci tiene a condividere il suo pasto. Ci offre anche del vino casereccio che qualcuno gli ha portato di nascosto. Intorno a noi, una decina di gattini e poi solo silenzio. L’atmosfera però è serena. Enzo pare star bene. È un po’ provato dal freddo notturno e dall’umidità del dormire a terra, ma nonostante ciò sprizza energia, è carico, finalmente ha trovato il modo di esprimere a pieno le idee per cui ha combattuto, non senza difficoltà, per trent’anni. Enzo ha una cinquantina d’anni. È nato e cresciuto a Roma ed è tornato a Pescara del Tronto quando ne aveva una ventina. Viveva nella casa dei suoi defunti genitori. A quel che ho capito, nella sua vita ha fatto di tutto, ma l’ultimo lavoro è stato venditore ambulante; non so cosa vendesse. Le battaglie, di cui non si stanca mai di parlare, le ha combattute contro la cementificazione, l’abusivismo, gli interessi privatistici, gli egoismi, e a favore di uno sviluppo dal basso che coinvolgesse la comunità di Pescara del Tronto ed evitasse lo spopolamento. Battaglie per le aree interne, insomma.
Sulla tavola apparecchiata alla bene e meglio, tra battute e brindisi veloci, Enzo e i volontari mi raccontano le ultime novità. In settimana Enzo ha ricevuto visite importanti. Sono venuti a trovarlo la Presidente della Camera Laura Boldrini e il Commissario Straordinario di Governo alla ricostruzione Vasco Errani; entrambi, in visita istituzionale, hanno provato a convincerlo a desistere dalla sua personale protesta. Enzo tira fuori il petto e dice che ha colto l’occasione per esporre loro i problemi che affliggono la sua terra. Dice che ora più che mai non vuole mollare, ora ha la loro piena attenzione.
Nei giorni successivi anche la Bbc si recherà a conoscere Enzo. Gli dedicherà un piccolo video in cui lui descrive, forse in modo un po’ goffo, il rumore del terremoto. Ma non è tutto. Il 4 ottobre, una Golf nera entra a Pescara del Tronto, si ferma davanti la casa danneggiata, con i gatti e l’acqua che sgorga furiosa, e dal finestrino spunta una mano, una mano che è lì solo per stringere la mano di Enzo. È Papa Francesco. Solo una stretta di mano e una breve benedizione ma Enzo, comprensibilmente, trattiene a stento la commozione quando ne parla.
Enzo a suo modo è stato il centro del terremoto del Centro Italia, in quei giorni. Impersonava la strenua resistenza di un’intera popolazione, la resilienza. L’Italia intera e un po’ di mondo si sono accorti di loro e loro hanno voluto solo far capire che non avevano alcuna intenzione di andare via. Enzo interpretava questo sentimento diffuso in modo più deciso, forse troppo folcloristico, ma con sacrificio, un folle, estremo sacrificio.
Pescara del Tronto, settembre 2016. Fotografia di Antonio Di Cecco
Nei pochi minuti che al secondo incontro abbiamo per parlare a quattrocchi, Enzo mi parla ancora di sassi. Enzo parla sempre di sassi. Mi racconta di un paio di esposizioni fatte in Germania, a Norcia, di contatti che ha con esperti giapponesi e di una sorta di torto subito da un altro appassionato come lui. Lo sto a sentire senza interromperlo, senza domandare. Mi piace il rumore farfugliato della sua voce.
Sulla via del ritorno alla tendopoli di Borgo, i sorrisi lasciano spazio a espressioni un po’ contrite. I volontari del GUS sono preoccupati per Enzo. La faccenda, per quanto da loro sostenuta e difesa, non può durare ancora a lungo. Le gesta di Enzo, in qualche modo, sono diventate una loro responsabilità, un carico ulteriore rispetto ai compiti già gravosi di assistenza alla popolazione che svolgono. Non tutto fila liscio come appare. Una patina opaca avvolge i loro sguardi.
Il 26 ottobre 2016, due violenti terremoti con epicentro a Castelsantangelo sul Nera e Ussita colpiscono il Centro Italia. Decido di estendere le mie ricognizioni anche all’Umbria e all’entroterra marchigiano. La sera del 29 ottobre sono di nuovo ad Arquata del Tronto. Virginia e Letizia, un’altra volontaria del GUS, mi ospitano in camper, cosicché la mattina seguente io possa svegliarmi presto e raggiungere Norcia. Ma arrivo tardi, dopo l’ora di cena, e non riesco a vedere Enzo. Mi dicono che sta bene, il freddo però ormai è eccessivo, e a sessanta giorni dal primo sisma, con l’attenzione mediatica scesa, non ha davvero più senso stare in zona rossa. Bisogna trovare il modo per convincere Enzo.
Alle 7.40 un altro terremoto, il più forte mai registrato in epoca moderna dopo quello in Irpinia, interrompe il riposo di tutta l’Italia centrale. Io, Virginia e Letizia facciamo appena in tempo ad abbracciarci. Usciti dal camper, un’immensa coltre di polvere aleggia su tutto.
Segue un caos carico di stress. Alla paura si aggiunge l’ansia, la stanchezza psicologica di dover affrontare la quarta forte scossa. La Protezione Civile decide di trasferire tutta la popolazione sulla Costa. Il Gus, che fino a quel momento aveva sostenuto il diritto dei terremotati a restare, è d’accordo. Non c’è più un solo edificio agibile, l’inverno è alle porte, meglio andare via. Si attivano le procedure di sgombero, in un paio d’ore arrivano i pullman che per tutta la giornata, poi, continueranno a fare la spola con gli alberghi costieri.
Pescara del Tronto, settembre 2016. Fotografia di Antonio Di Cecco
Aiuto Virginia e Letizia a radunare nella grande tenda della mensa gli anziani che erano stati ospitati nella “Casa del Parco”, un edificio in cemento armato di un piano che aveva resistito alle scosse precedenti e che ora è completamente crepato. Poi raggiungiamo alcuni ragazzi di Arquata che stanno cercando di liberare la strada per la frazione di Colle: più frane hanno invaso la carreggiata.
Di Enzo non abbiamo notizia per tutta la mattinata, le linee telefoniche sono intasate. Letizia riesce a parlarci solo per primo pomeriggio. Gli dice di scendere, di venir via ma lui non vuole. Allora lo prega di mettersi al sicuro, di non stare vicino alle case, e persino alle poche mura rimaste in piedi. Fino a notte fonda, quando anche noi per ultimi partiamo per la costa, Letizia prova a convincere Enzo. Inutilmente. Vuole restare, la sua missione non conosce paura, non conosce logica.
Un paio di giorni dopo, però, grazie alla determinazione di Letizia, Enzo cede e si trasferisce nella tendopoli di Borgo. Gli viene assegnata una tenda e diventa, così, l’ultimo terremotato a restare in tutto il Comune di Arquata del Tronto.
Intorno a Natale lo chiamo al telefono. È ancora in forze, la vita in tenda però, con le temperature che scendono sotto zero si è fatta davvero dura. Di tanto in tanto, vede qualche persona, i pochi arquatani che nel fine settimana tornano al paese. A pranzo e a cena va alla mensa dei Vigili del Fuoco, montata sulla Salaria a qualche chilometro da Borgo, proprio sotto Pescara del Tronto, ma il più delle volte riesce a rimediare un passaggio. Enzo mi parla a lungo delle continue pressioni che riceve da alcuni rappresentanti del Comune di Arquata affinché lasci la tenda per permettere l’inizio delle urbanizzazioni per il villaggio di S.A.E. lì previsto. Enzo non vuole mollare, non vuole andare via. Gli basterebbe, dice, una piccola roulotte da piazzare in posto tranquillo e non darebbe più fastidio a nessuno. La sua battaglia, penso mentre mi parla, sta prendendo sempre più i toni di una crociata solitaria, si direbbe, contro i mulini a vento.
Il 14 gennaio 2017 torno ad Arquata con Antonio Di Cecco, un amico e fotografo aquilano. Abbiamo intenzione di seguire la costruzione dei villaggi S.A.E. e quello di Pescara sulla Salaria, vicino alla mensa dei Vigili del Fuoco, è tra i primi in corso di realizzazione.
Proprio a mensa incontriamo Enzo. Saluta i Vigili del Fuoco come fossero amici; ormai è uno di casa.
Dopo mangiato, andiamo nella zona rossa di Arquata e di Pescara del Tronto, Antonio vuole fare qualche scatto. Enzo e due Vigili del Fuoco ci accompagnano. Un sottile strato di neve ricopre ogni cosa, le vallate piene di alberi su ambo i lati del fiume Tronto, i container del Comune, dei Carabinieri, dei bagni, del magazzino collettivo, dello stanzino con dentro un distributore di bevande, e tutte le case, i resti delle case, i tronconi di case, le briciole, il ricordo delle case.
Ad Arquata stiamo poco. È pericoloso addentrarsi tra le vie del centro, scavalcare cumuli di macerie e passare sotto cornicioni o mura o tetti a picco sulle nostre teste. Inoltre vedo Antonio non interessato, spento, il suo occhio ormai è stanco, stanco di macerie, abituato forse; credo non abbia più interesse a fotografare macerie, ma già le conseguenze delle macerie, il loro naturale ricollocamento fisico nello spazio.
Pescara del Tronto. Gennaio 2017. Fotografia di Antonio Di Cecco
A Pescara è diverso. A casa Enzo sembra tornato vispo, si muove con agilità, ci fa strada, sbraccia, e sorride. I Vigili sono un po’ imbarazzati, pare quasi che il tour sia per loro. Eppure da osservare c’è solo il progressivo sbriciolamento del paese coperto da questo sottile velo di neve che più che mascherare amplifica il senso di perdita irrimediabile. Di Pescara del Tronto non esiste che una vaga traccia. Mentre Antonio posiziona il cavalletto verso scorci dove io non riesco a vedere alcuna foto, Enzo ci invita a seguirlo. Dal luogo dove ha vissuto per più di sessanta giorni ci conduce vicino ai resti di una casa e poi di un’altra, poi a un’altra ancora. La differenza per me e per i Vigili sta nei dettagli, una bicicletta che spunta da una parte, un letto da un’altra, una ringhiera di ferro battuto, un portone, una persiana verde, ma per Enzo non è lo stesso. Elenca nomi e cognomi, racconta delle persone che vivevano quelle macerie e che la notte del terremoto ha aiutato, e di quelle per le quali non c’è stato nulla da fare.
Quando ormai è buio, lasciamo Enzo davanti alla sua tenda blu della Protezione Civile, l’unica rimasta nel campo. Lo saluto con naturalezza, come se ci dovessimo rivedere il giorno seguente. Non ho il coraggio di dirgli che ormai è tempo, anche per lui, di andare via. Lasciare lì Enzo, mentre lui già pensa a prepararsi per affrontare la notte, mi svuota il cuore. La sensazione di abbandono, di gelo, e anche il senso di colpa che provo, li condivido con Antonio, in auto, lungo la via del ritorno. Ci sono voluti giorni perché sparissero.
Il 18 gennaio, dopo una nevicata che fa cadere in Centro Italia oltre un metro di neve, arriva l’ultima violenta sequenza di scosse. Colpiscono la provincia dell’Aquila e quella di Teramo: Capitignano, Montereale, Campotosto, Cortino, Valle Castellana; Comuni già colpiti nel 2009 e di nuovo nell’agosto del 2016. Anche questa volta non ci sono vittime dirette, ma a causarne sono invece il freddo e le slavine, come a Ortolano, a Brittoli, a Crognaleto, a Rocca Santa Maria e all’albergo di Rigopiano.
Non chiamo Enzo. Parto invece con Antonio per seguire da vicino la situazione. So che in tenda a Enzo non può capitare nulla. E spero che il telefono non squilli.
Trascorrono appena due settimane e la vicenda di Enzo torna alla ribalta. È il 30 gennaio quando i Carabinieri mettono in atto un ordine nei suoi confronti di divieto di dimora e di avvicinamento al Comune di Arquata del Tronto. Enzo viene arrestato con l’accusa di interruzione di pubblico servizio e di resistenza a pubblico ufficiale. Durante l’esecuzione della misura cautelare, prova comunque a resistere. Enzo racconta di essere stato strattonato e condotto via di forza, quando invece lui voleva solo essere portato via ritto, sulle sue gambe.
Enzo trascorre due notti nel carcere di Ascoli Piceno. Passa il tempo vicino alla finestra, senza riuscire a dormire, sperando che quello che vede attraverso la feritoia sia il cielo. Dopo il terremoto, dice, ha sviluppato una fobia, la paura di stare dentro gli edifici in muratura. Gli viene l’ansia, gli vengono attacchi di panico. Ed esiste la perizia di un medico che lo certifica.
Anche la trasmissione Le Iene si occupa del caso. L’inviata Nina Palmieri, in un servizio trasmesso a marzo, intervista il Sindaco di Arquata per chiedere spiegazioni e magari trovare una soluzione per Enzo, che dalla sua chiede ancora una roulotte per restare nella sua terra. Aleandro Petrucci, prima un po’ scocciato poi con disponibilità, risponde che se desse una roulotte a Enzo, altre cento persone gli andrebbero a chiedere la stessa cosa. Non può fare nulla: Enzo, come tutti, dovrà attendere la costruzione delle casette di legno. Anche lui, certo, ne avrà una e allora il divieto di dimora sarà revocato.
Quando Nina va a riferire le parole del Sindaco a Enzo, lui non la prende molto bene. Minaccia che nelle casette non ci vuole andare. E aggiunge che ormai si sente un perseguitato, si dichiara prigioniero politico. La faccenda non si chiuderà lì.
L’unica cosa che riesco a pensare vedendo il servizio, per la verità un po’ raffazzonato e strappalacrime, è che anche se Enzo in albergo a San Benedetto non riesce a chiudere occhio, almeno si è ricongiunto con i volontari del Gus. Almeno adesso Enzo non è più solo.
Cantiere Sae, Arquata del Tronto. Aprile 2017. Fotografia di Antonio Di Cecco
La notte tra il 5 e il 6 aprile all’Aquila si svolge la fiaccolata in onore delle vittime del terremoto. Quest’anno, oltre alle migliaia di aquilani, ci sono anche gruppi di terremotati provenienti da Amatrice e da Arquata del Tronto. Tra loro c’è anche Enzo. Ha la barba molto lunga ed è diventata tutta bianca. Le rughe sul suo viso sembrano crepe.
La fiaccolata scorre lenta e silenziosa tra le vie a ridosso del centro storico in gran parte ancora inagibile. Per quasi l’intero tragitto Enzo e io camminiamo fianco a fianco. Mi racconta che quando faceva il venditore ambulante spesso veniva all’Aquila per la tradizionale Fiera dell’Epifania. I suoi occhi sono come di vetro. So che quello che sta osservando è il futuro che immagina per la sua terra. Invece io credo che quel che li attenda sia ben peggiore. Il futuro di Pescara e Arquata del Tronto credo sia simile, piuttosto, alle decine di paesini attorno all’Aquila, che Enzo non conosce e che stasera non può vedere: una ricostruzione lontana dalle telecamere e dunque ancora più lenta, ancora più farraginosa, ancora più precaria, più incerta. Non trovo, però, il coraggio di dirglielo.
Davanti alla Casa dello Studente incrociamo Emiliano Dante, un regista aquilano che sta girando il terzo film documentario sul terremoto. Sta riprendendo la fiaccolata. Lui ed Enzo si salutano con affetto e si scambiano qualche battuta. Si conoscono perché Emiliano ha trascorso diverso tempo ad Arquata, dove sta ambientando parte del film. Osservandoli penso a quanto siano forti i legami che si creano dopo un terremoto. Non importa quanto durino concretamente, restano, in qualche modo resistono. Credo siano più autentici dei legami nati in condizioni normali e ciò accade per ragioni che vanno oltre la nostra comprensione.
Prima di salutarci, Enzo mi confida che adesso un po’ riesce a dormire, almeno durante il giorno. Adesso in albergo, tra mattoni e cemento, riposare fa meno paura. Poi arriviamo in piazza Duomo, ascoltiamo i trecentonove rintocchi di campane per le vittime e ci perdiamo di vista.
A fine maggio torno con Antonio ad Arquata per vedere lo stato dei lavori dei villaggi S.A.E. Per soddisfare il bisogno abitativo di ogni frazione sono previsti sette lotti per un totale di duecento casette. Al nostro arrivo scopriamo che il primo villaggio, quello di Pescara del Tronto, che avevamo visto in costruzione a gennaio, sarà finalmente consegnato il 6 giugno, che a Borgo, sul campo di calcio dove sorgeva la tendopoli, sta per essere ultimata soltanto la struttura in legno delle S.A.E. e che invece per gli altri insediamenti è stato fatto qualche sbancamento di terra e nulla più. A dieci mesi dal terremoto.
Ad Arquata non c’è nessuno. È mercoledì pomeriggio. Il Comune è chiuso. La caserma dei Carabinieri è deserta. C’è solo un signore anziano che guarda i lavori delle S.A.E. e nel cantiere non più di dieci operai. A delimitare la zona rossa, poco più a monte rispetto a noi, ci sono due militari armati di mitra. Le macerie, un silenzio opprimente, il fango, il verde dei boschi tutt’intorno, asfissianti come un presagio. Mancava qualcosa. Mancava qualcuno; foss’anche l’ultimo dei matti.
Chiudo l’ultimo articolo sul terremoto a fine luglio e decido che per qualche tempo non ne voglio più sentir parlare. Interrompo i rapporti che ho coltivato fino allora. Non vado alla commemorazione del 24 agosto 2017. Sento solo Enzo, una sera, per un saluto rapido. Mi dice che vuole fare uno sciopero della fame contro l’inizio dei lavori sulla Salaria per la variante di Trisungo e poi mi tiene al telefono un tempo infinito per convincermi a scrivere un libro sulla sua esperienza resistente e antagonista. Non senza fatica, rifiuto la proposta. Non ho più forze per un impegno così complesso. Voglio solo staccare e stacco.
Sae, Arquata del Tronto. Dicembre 2017. Fotografia di Antonio Di Cecco
Gran parte delle casette di Arquata del Tronto e delle frazioni è stata consegnata lo scorso autunno. Gli sfollati, qui come altrove, si sono visti assegnare le S.A.E. per sorteggio. Arrivato il primo freddo le tubature dei boiler piazzati sui tetti si sono ghiacciate e sono esplose. Nessuno, in fase di progettazione, aveva immaginato che in zone di montagna le temperature potessero scendere sotto lo zero. Ai tanti, troppi difetti di costruzione si è aggiunta un’altra variabile, l’imperizia.
È il 2018. Non sento Enzo da sei mesi. Ho incontrato Virginia durante le vacanze di Natale e mi ha detto che è più insofferente del solito, che è in modalità prima donna, ma che comunque è sempre il nostro Enzo. Non approfondiamo però. Facciamo un brindisi e ci promettiamo di riparlarne, ma non avverrà.
Il 30 gennaio c’è la prima proiezione cittadina, alla XII edizione del L’Aquila Film Festival, di Appennino, il film di Emiliano Dante. Sono curioso di vedere il lavoro di Emiliano, di scoprire come sia riuscito a intrecciare le vicende aquilane alla narrazione del Centro Italia, di Arquata, così vado.
Sono tutti lì, i luoghi che conosco, e le forme di volta in volta diverse che quei luoghi hanno assunto nel corso dei mesi. I volti ripresi da Emiliano, li ho visti tutti, li conosco, sono dolorosamente familiari. Riesco a capire quel che diranno ancor prima che lo dicano, e di più, capisco già come diranno ciò che stanno per dire. Nella platea scatta, com’è comprensibile, un meccanismo d’immedesimazione tra terremotati; per me l’immedesimazione è doppia. E c’è Enzo. In un primo momento è una sorta di fantasma disegnato, in tenda a Pescara, nella tendopoli di Borgo, all’Aquila, poi, a metà film appare reale, al mare, a San Benedetto, la telecamera puntata in faccia, la barba ancora più lunga, i capelli radi raccolti in una coda, che dice: «Il terremoto è il respiro della terra, un grave respiro della terra, ma lo sappiamo, è nel conto della nostra vita. Ma gli amministratori che per quarant’anni hanno dissipato le risorse dello Stato, le hanno succhiate come fossero zecche, forse il tintinnio delle manette bisogna farglielo sentire a loro un po’ più spesso, non a me ogni settimana.»
Il film finisce. Faccio i complimenti a Emiliano e scappo via. Ma non riesco a trattenermi, ad attendere di tornare a casa, tra i cantieri fermi, nell’oscurità della piccola via dove ho parcheggiato, devo chiamare Enzo.
La sua voce è impastata, forse l’ho svegliato. Non tutto ciò di cui mi parla segue un ordine intellegibile, ma su una cosa è chiaro: non vuole più tornare a Pescara del Tronto, né ad Arquata. Come promesso, gli è stata assegnata una casetta in cui sarebbe dovuto entrare già da un mese, ma lui ha paura che, tornando, qualcuno gliela faccia pagare per la sua protesta. Io cerco di farlo ragionare, gli dico che non siamo mica nel far west, ma lui non demorde. Ad Arquata, dice, è pronto un cappio per lui. Ha paura, ha paura per la sua vita.
Dopo essere stato l’ultimo a non voler andar via, ora Enzo è il primo a non voler tornare.
Gli chiedo cosa ha in mente di fare, ma lui non lo sa. Lo invito allora a cercare di ricostruirsi una vita altrove, ma lui non sa dove andare. E mentre cerco di tirarmi fuori dalla chiamata perché mi fa male la frustrazione di non riuscire a suscitare in Enzo la benché minima speranza, di non riuscire a stimolarlo con l’ipotesi di una nuova prospettiva, il mio pensiero corre a quell’amico che non sopravvisse al post terremoto aquilano. Mi viene un brivido. Per la prima volta ho paura per Enzo. Devo andarlo a trovare, penso ancora. A oggi, però, ancora non l’ho fatto.
Ormai l’attenzione mediatica sul terremoto è scemata insieme alle retoriche politiche del non abbandono. Il cratere sismico del Centro Italia è un buco e lo sarà ancora a lungo. Un giorno, parte sarà riempita, una parte invece no. Enzo, io credo, è un prodotto di quel buco. Enzo, a suo modo e senza dubbio per eccesso, è il paradigma del terremoto. Incarna l’eterno quanto inevitabile dilemma fa seguito a una catastrofe naturale e sociale di tali proporzioni: restare oppure andare via? Resistere o mollare?
Inutile farsi illusioni, a questo dilemma non c’è un’unica risposta. So però, per esperienza, che è compito dello Stato, è il principale compito dello Stato intervenire qui, su questo dilemma, e motivare, e orientare le scelte individuali affinché si resti, affinché si resista. È questo e non altri il vero senso della ricostruzione, il senso della ricostruzione sociale. E in questo tragico gioco a perdere o a salvare, sono sicuro, infine, che con la figura di Enzo, con quello che coscientemente o involontariamente rappresenta alla luce di quel suo e nostro dilemma, bisogna fare i conti. Tutti. Un post terremoto o un Paese in crisi, in fondo, sono la stessa cosa.
Per conto mio, è giunto il momento, devo andare a trovare Enzo.
L’autore. Alessandro Chiappanuvoli (L’Aquila, 1981) è laureato in Sociologia della Multiculturalità presso l’Università di Urbino. Ha pubblicato Lacrime di poveri Christi – Terzigno: cronache dal fondo del Vesuvio (Arkhè, 2011), un reportage narrativo sullo scandalo rifiuti in Campania, la silloge di poesia golgota(Zona Editrice, 2013), Premio Laudomia Bonanni 2013, sezione autori giovani. Suoi scritti e articoli sono apparsi su: Stella d’Italia. A piedi per ricucire il Paese (Oscar Mondadori, 2013, a cura di Antonio Moresco), Alfabeta2, Il Manifesto, Il Messaggero, News Town, Effe – Periodico di altre narratività; e sui blog: Nazione Indiana, Il Primo Amore, Flanerì, Poetarum Silva, Comunità Provvisorie, Doppiozero. Da ottobre 2016 collabora con la rivista Internazionale per la quale ha scritto articoli sul terremoto del Centro Italia.
Il fotografo. Antonio Di Cecco è nato nel 1978 a L’Aquila, dove vive e lavora. Si occupa di fotografia di paesaggio urbano e architettura, oltre all’analisi dei processi di modificazione dei luoghi, con interesse specifico per l’ambito montano. Attualmente è impegnato nel progetto Paesaggio culturale dell’Appennino sismico presso il Kunsthistorisches Institut in Florenz, proseguendo la ricerca sulla rappresentazione del paesaggio post-disastro (L’Aquila as a post-catastrophic city, Kunsthistorisches Institut in Florenz, 2015) con particolare attenzione alle forme dell’abitare temporaneo (Topologie del terremoto-Emilia Romagna, Kunsthistorisches Institut in Florenz, 2016). Nell’aprile 2013 pubblica il volume In Pieno Vuoto. Uno sguardo sul territorio aquilano (Peliti Associati), a cura di Benedetta Cestelli Guidi, con testi di Laura Moro, direttore dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. È rappresentato dall’agenzia fotografica Contrasto
Il regista. Emiliano Dante (L’Aquila, 1974) ha esordito come regista nel 2003, con la serie di cortometraggi sull’abitare The Home Sequence Series. Dopo altri corti, ha realizzato i documentari sulla vita postsismica Into the Blue (2009) e Habitat – Note personali (2014), entrambi presentati al Torino Film Festival, avviando una trilogia che si chiude proprio con Appennino. Oltre ai documentari, ha anche diretto il lungometraggio di finzione Limen (2013). Nei suoi lavori porta avanti un’idea di autorialità radicale, realizzando personalmente tutte le componenti artistiche (sceneggiatura, montaggio, musica, fotografia e, quando presenti, animazioni). È anche fotografo, saggista e narratore.
Il documentario. Appennino (2017) è un diario cinematografico che inizia dalla lenta ricostruzione de L’Aquila, la città del regista, e prosegue con i terremoti nell’Appennino centrale del 2016-17, fino al lunghissimo ed estenuante asilo dei nuovi terremotati a S. Benedetto del Tronto. Un racconto intimo e ironico, lirico e geometrico, dove la questione di vivere in un’area sismica diviene lo strumento per riflettere sul senso stesso del fare cinema del reale.
Il disegno di copertina è di Emiliano Dante
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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