Conosciamo Alessandra e la sua famiglia nel mese di marzo di quest’anno in uno degli hotel di San Benedetto del Tronto dove, come ricercatrici sociali e fotografe del gruppo Emidio di Treviri, facciamo spola tra le strutture ricettive della costa che ospitano le persone, come lei, colpite dal terremoto del 24 agosto dello scorso anno. Gli alberghi che hanno attivato la Convenzione Quadro con le quattro regioni del cratere e ANCI in seguito agli eventi sismici che hanno interessato il centro Italia da agosto 2016 a gennaio 2017 hanno accolto gli sfollati del centro Italia. Una soluzione nata con l’obiettivo di: “garantire adeguata assistenza alle famiglie interessate attraverso una pronta accoglienza […] che deve tenere conto della possibilità di mantenere la popolazione in luoghi territorialmente prossimi al Comune di residenza e di consentire il mantenimento dei legami parentali, sociali e relazionali della comunità, non ché il facile accesso al sistema dei servizi per le persone e le famiglie, a partire dai servizi scolastici e sanitari” come recita il testo inviato alle strutture ricettive nel manifestato interesse ad accoglierli, datato 8 settembre 2016. Quando per la prima volta la incontriamo sono già passati sette mesi dal momento in cui, con la sua famiglia, ha dovuto optare, non avendo alternative, per la soluzione hotel: una soluzione funzionale sul brevissimo periodo che dopo un anno dal primo sisma si sta rivelando una soluzione strutturale. La incontriamo nella completa discrezione, senza immaginare che avremmo trascorso molti mesi in contatto e che ancora oggi, dopo un anno l’avremmo trovata in un altro hotel, stavolta a Martinsicuro, ancora in attesa. È così che decidiamo di raccontare il suo tempo, quello che ci ha concesso permettendoci di osservare le giornate sempre uguali da troppo tempo ormai. La scelta di raccontare la sua storia è il desiderio che una delle tante storie, storie spesso strumentalizzate, di famiglie e amicizie, di attese e conflitti, di promesse e paure, possa rendere voce a ogni storia non raccontata, invisibile, nell’ombra del tempo che passa senza che una soluzione reale venga offerta alle popolazioni sradicate dalle terre di un cratere troppo vasto, lacerato a cui si desidera tornare:
“Molte persone tornano tutti i giorni ad Amatrice, per lavoro, per vedere la casa, per non stare sempre qui, viaggiano, ma è un stress, è lontano da qui, c’è bisogno di tornare per vedere, siamo andati via senza volerlo, siamo stati costretti. Ti sembra di averla tradita la terra, le dici: “mi hai fatto questo e io me ne vado”, ma se volevamo vivere con lei non ci facevano vivere lì, e non sai quanto siamo legati a quei luoghi di una vita. Io non mi sento di giudicare chi poteva restare, ma io con le mie figlie non potevo, la scelta non è mai una vera scelta, dipende da tante cose”.
Parlando con Alessandra, una giovane madre di due splendide bambine le chiediamo come si vive in hotel, e come si sente dopo molti mesi, ma la narrazione parte dalla notte del terremoto, ci spiega passo passo le fasi passate durante questi lunghi mesi insieme alla sua famiglia e amici, sfollati come lei:
“Per farti capire come è andata devo partire dall’inizio. La notte, dopo la scossa che ci ha buttato fuori casa noi siamo stati lì due o tre orette davanti al convento delle suore chiuse nella macchina, tanto ormai era crollato tutto, fino alle 7. Mio marito era andato a tirare fuori le persone, sotto le macerie, dopo aver forzato la porta di casa con le bambine in braccio, io ero paralizzata e sentivo solo grida fuori, anche dei miei vicini. Quando siamo riusciti a uscire e raggiungere uno spiazzo sono arrivati i carabinieri e mi hanno detto: “no signora, prenda le bambine, uscite dalla macchina e andate al curvone, restate lì”. Siamo rimaste lì noi tre e quando ho iniziato a vedere che arrivavano ambulanze, militari con le pale, con i picconi, gli amici miei partiti dai paesi che sono venuti su, per aiutare noi stavamo fermi. Siamo rimaste sotto l’ospedale ma poi lì non ci hanno fatto rimanere, era crollato tutto quanto e avevano allestito un piccolo ospedale da campo, nel parcheggio dove soccorrevano le persone che portavano da su, dalla zona rossa. Con le mie figlie siamo state in un prato tutto il giorno e visto che alla più grande avevamo promesso che avremmo fatto un giorno un picnic, proprio per non farle vedere tutto quello che c’era le abbiamo portate lì e siamo state tutto il giorno buttate su un prato. Lì c’erano tre case e i proprietari prima di andare via ci hanno lasciato un tavolo con le sedie, ci hanno detto: “almeno non state buttati”. Loro sono scappati, a Roma. Gli altri evidentemente pensavano che noi stavamo bene, che eravamo abitanti di quelle tre case che non erano crollate, però non ci hanno dato niente. All’inizio questi parenti di mio marito arrivati da Roma mi hanno portato il biberon perché noi siamo scappati così, senza ciuccio senza biberon, pannolini. Le bambine sono state scalze quattro giorni, senza scarpe, quindi mi hanno portato l’occorrente per le bambine e poi ci hanno portato un po’ di prosciutto un po’ di pizza e poi verso le sette, te l’ho detto, è passato quel signore che ci ha chiesto cosa facevamo lì, se stavamo bene e ci ha lasciato un filone di pane, sennò fino a quel momento non avevamo niente da mangiare”.
Come avete scelto di andare in hotel?
“Alla fine mio marito ha insistito perché tornassimo a una certa normalità e poi comunque io avevo paura di una struttura di una casa, dopo quella notte nell’immediato con le bambine non ci sarei mai rientrata. L’albergo è uguale per la paura, è uguale a una casa per com’è fatto, non è che cambia qualcosa, però la mia testa mi diceva: avranno fatto i controlli, hanno visto che è antisismico decidono di mandarci lì quindi è sicuro. In albergo non starei da sola, ci stanno altre persone. Quindi questa cosa di non rimanere da sola, la notte soprattutto. Non tanto il giorno quanto la notte, perché il terremoto sempre succede la notte. Se era successo di giorno forse era differente, si avrebbe paura del giorno, non lo so. Abbiamo deciso di venire in albergo almeno per cercare di dare una normalità alle bambine, alla fine nel campo delle tende ci siamo stati una ventina di giorni e l’ultima settimana la più piccola, che ha due anni quasi, era stata male, stava con la febbre e svariate infezioni raccolte lì nel campo perché comunque è normale, giochi con la terra. Nei bagni però non ci andava perché lei portava il pannolino la lavavo fuori dalla tenda, mettevo a scaldare l’acqua al sole e il pomeriggio la lavavo. Poi quando si è capito quali erano le scelte, l’albergo, l’autonoma sistemazione noi abbiamo fatto richiesta per l’albergo e siamo stati i primi ad andare via perché lei non stava bene hai capito? Era venuto due tre volte il pediatra nella tenda a visitarla, non potevamo andare avanti così”.
Com’è stato andare via per venire in hotel?
“Inizialmente eravamo spaesati, come eravamo spaesati dentro alle tende. Come in albergo, pure ad Amatrice eravamo spaesati, è stata una situazione che destabilizza molto e poi piano piano riprendi quelle che dovrebbero essere le abitudini normali. Ti lavi la camera ti lavi i panni, stendi i panni, fai delle cose ma ad esempio l’intimità non esiste qui. È stato umiliante all’inizio, come in tenda, quando non c’erano le tende delle docce, per ogni donna era una vergogna stare nuda davanti a tutti i primi giorni per potersi lavare, avevamo ancora la polvere e la terra addosso. È stato umiliante anche in hotel, arrivare e dover chiedere tutto. Ho cercato di capire come funziona, che succede con l’emergenza. Da quello che ho capito io è una macchina che parte con la Protezione Civile fino a che non finisce l’emergenza. E funziona così, ma quando finisce? Io ho scelto per le bambine, anche mio marito voleva che fossimo al sicuro mentre lui tornava a lavorare tutti i giorni lì. Qui c’erano almeno dei conoscenti e la mia famiglia”.
Adesso come state qui?
“Adesso dopo tanto tempo in una situazione di convivenza forzata è molto dura, prima vedevi una faccia vista ed eri contento perché la persona che incontravi sapevi che era viva, ora siamo stanchi. Non siamo liberi e non ci aiutiamo tra di noi. Prima eravamo tutti scossi e all’inizio poteva andar bene come soluzione, dopo tanti mesi non reggi la circostanza e non sopporti nulla. Capisci che non danno una data, è iniziata la stagione estiva e ti senti di più un peso. Continuano a dire che siamo in vacanza, ma è un esilio, non è una vacanza! Siamo pieni di anziani che vogliono morire a casa loro, non ce la fanno più. Abbiamo sofferto tutti. Gli anziani poi…. mia nonna per esempio è qui con noi ed ha novant’anni. Il mare mia nonna non lo conosceva, sapeva solo scrivere la parola mare, non ci era mai stata. La stacchi dalle proprie abitudini ed è finita. Vogliono tornare a casa loro gli anziani come lei, dopo una vita di sacrifici. Chi può muoversi passeggia o come nonna che non deambula stanno in stanza, non fanno la strada che facevano per andare in campagna o in paese. La maggior parte sono anziani e tanti bambini, stiamo tutti fermi, ci fa male”.
La giovane donna ci spiega come stanno le persone con cui condivide la quotidianità sottolineando quello che risulta essere uno dei problemi più evidenti, ossia l’aggravarsi delle condizioni di salute tra le persone anziane, legata alla perdita di riferimenti, di abitudini di vita e alimentari, allo smarrimento e al trauma che sommati all’età peggiorano la qualità della loro vita. Considerazioni che ci confermano medici e psicologi che da mesi operano a contatto con le popolazioni sfollate, e che la letteratura sui disastri descrive come una soluzione che sul lungo periodo non favorisce il benessere quotidiano, al contrario incrementa stati di malattia. Anche per quanto riguarda i bambini ci sono delle specificità. Alessandra ci parla così della sua esperienza di mamma sfollata:
“A detta degli psicologi i bambini dimenticheranno, accantoneranno il trauma, secondo me non dimenticano, avranno altri ricordi che affioreranno alla mente e tutto quanto, secondo me non dimenticano. La più grande che ha 5 anni non ha dimenticato, non voleva andare a scuola all’inizio, nemmeno a danza e lei vive per la danza. Disegnava letti neri in aria, poi piano piano con le sedute dallo psicologo disegnava letti neri e arcobaleni, ora non ne disegna più, nemmeno i sassi o la casa gialla che era la nostra ed è crollata, disegna i castelli che la fanno sentire al sicuro, chiede quando torniamo a casa, mi domanda sempre dove sta adesso la casa. Diceva che la casa l’avevo rotta io perché urlavo quella notte. Inizialmente non aveva capito, poi con la tv e sentendo parlare le persone ha capito perché eravamo qui. Ha sofferto parecchio, soffre anche adesso, chiede quando torniamo. Abbiamo fatto passi in avanti nei mesi per farla tornare alla normalità. Ogni volta che pensavamo di aver finito il percorso di terapia ricominciavamo con le scosse a ottobre e gennaio, ma non abbiamo mai smesso di seguirla. Gli psicologi ci hanno detto di parlarne, lei mi chiede se hanno tolto le macerie da casa, è molto più grande dell’età che ha, a volte mi chiede cose a cui non so rispondere su quando torneremo ad Amatrice. Lei sa che i figli di una mia amica non ci son più, la sera come cerca il nonno tra le stelle cerca anche loro. Lei chiede ma ha 5 anni e non posso dire bugie ma nemmeno devo spaventarla. Sono contenta che ha capito che abbiamo fatto del nostro meglio, per salvarle e portarle in un posto sicuro. Se inizia a parlare non devo fermarla, se devo chiedere io no, la lascio in pace. Mio marito non vuole parlarne. All’inizio eravamo turbati perché non siamo riusciti a salvare i nostri vicini di casa, lui ha risentito molto di questa cosa, e anche per questo non molla mai, lavora tutti i giorni nei vigili del fuoco e fa il suo massimo. Gli psicologi gli hanno però fatto capire che sì è un vigile del fuoco ma è terremotato pure lui”.
E come procedono le giornate qui?
“Siamo psicologicamente fragili, tra chi sta su ad Amatrice e chi sta qui ci sono screzi quotidiani, e su Facebook è pure peggio! Dalle foto e le scritte pubblicate è un continuo di litigi. Le mele marce ci sono sempre state, anche adesso, come i buoni. Ognuno reagisce in modo diverso. Per farti capire, se io non manifesto e non mi arrabbio non è perché sto al mare e sto bene, non so nulla di quando ci daranno la benedetta casetta, e siamo consapevoli che siamo una spesa per lo stato, ci pesa troppo, ma non ce la faccio e non me lo posso permettere. Chi ha perso tutto ed era una persona buona, non si interessa dove sta e come sta, non sta a sindacare quello che fanno gli altri, potrebbero anche portalo sul cucuzzolo di una montagna comunque avrà perso tutto, puoi anche portargli l’oro colato non farebbe la differenza rispetto alla perdita di un figlio o di un genitore. Altri si rivelano cattivi e invidiosi. Noi ci sentiamo miracolati ma non mi va di assistere a queste guerre che ci facciamo tra poveri, e questo tempo straziante ha fatto emergere quello che erano le persone da prima. Le chiacchiere dividono, siamo tutti psicologicamente morti ma non dobbiamo continuare così. Come lo riconosci l’amatriciano vero da quello falso? Chi tornava ogni tanto o chi ha perso tutti i suoi giorni, le abitudini, io non manifesto perché non ce la faccio. Io rispetto chi veniva in vacanza, ma loro non hanno perso l’unica casa che avevano come noi, e quindi non possono dire che noi siamo in vacanza perché siamo in albergo”.
E tu come passi le tue giornate?
“Io non ho lo stato d’animo giusto per fare chissà cosa, mi sono iscritta in palestra e ci sono andata due volte, mio marito mi bacchetta perché mi annoio qui, ma non ce la faccio, poi le bimbe non le lascio, non le posso lasciare. Le mie giornate sono sempre uguali, preparo la grande per andare a scuola, do una sistemata alla camera per ammazzare il tempo, perché se non ammazzi il tempo ti ammazzi tu, faccio quello che avrei fatto a casa, il problema è il pomeriggio, passeggi sul lungomare, qui non posso nemmeno cucinare, dopo tanti mesi non sarò più capace di cucinare. Se ero giù di morale prima facevo dolci, qua non puoi fare nulla, nemmeno una torta. Siamo saturi pure di essere assistiti ogni giorno. Non è per non avere riconoscenza ma come si può vivere così senza nessuna risposta? Io mi sento un peso, e in più viviamo in una camera dove si ammucchia la roba, invernale e estiva. La solidarietà è stata tanta e con due bimbe immagina tu quante cose abbiamo accumulato! Non ho un posto mio e ti snerva anche questo. Ho fatto la terapia per la rimozione del trauma in uno studio privato perché alla Protezione Civile ogni settimana cambiavano gli psicologi e devi ricominciare da capo ogni volta. Con la terapia piano piano ho ricominciato a dormire. Ora di nuovo non dormo, le casette non arrivano e io sono preoccupata, ho mille pensieri e paure. Se avessi casa mia sarei una pasqua, potrebbero portarmi anche a Dubai ma io non sono in vacanza e non sto bene così! Non giudico, ma vorrei poter decidere come vivere. Il concetto in cui chiudi la porta e sai che volendo hai una tua intimità, un pochino di tempo per te mi manca. Le bambine così dormono sempre con noi, si infilano la notte nel lettone, siamo tornati indietro nella loro educazione. Ma va bene si recupererà. Anche mio marito sa bene com’è su ad Amatrice, vorrebbe qualcosa di meglio per noi ma io voglio provare a tornare su, tanto sono sola qui e non mi piace. Lì almeno ho i miei ricordi e posso ripartire con le bambine e mi renderò conto da sola. Poi prenderemo una decisione, che prendiamo l’autonoma sistemazione? Mica mi fido tanto, siamo in Italia i soldi arrivano e spariscono in un attimo, mica lo so”.
E mentre ci narra delle sue aspettative e dei suoi dubbi comprendiamo che questa soluzione sta avendo conseguenze sul benessere psico-fisico delle persone, apparentemente stanno bene, ma nel profondo accade quello che Alessandra ci spiega con molta semplicità:
“Mentre il tempo passa e non abbiamo grandi risposte, qui intanto controlli l’orologio per andare a mangiare, che è l’unico momento in cui succede qualcosa. L’unica gioia che ci è rimasta è mangiare, mangi per la fame di rabbia, qua si mangia perché che devi fare tutto il giorno? E dopo mesi e altri ancora qui inizia ad essere pesante questa cosa, non è tanto facile. Poche sere fa con degli amici qui abbiamo confrontato una foto scattata prima del terremoto e una di adesso. Siamo invecchiati di dieci anni, se le vedi si capisce che è successo qualcosa, lo vedi subito, siamo invecchiati, non saprei come spiegartelo, si mangia per passare tempo, gli uomini sono ingrassati di più, non si muovono più come prima per andare a lavorare, ma pure noi, pure io sono ingrassata. È una cosa nuova essere scaraventati qua, non ce la fai a renderti conto che è successo. Ti chiedi: è successo a me? Tutti scappavano da Amatrice io mai me ne sarei andata. Antidepressivi e tranquillanti ce li prendiamo tutti, il farmacista ci dice di prendere poche gocce, ma che ti fanno? Poi vorrei essere lucida, se le prendo mi calmo, non dormo uguale ma almeno sto più calma. Ho smesso di dormire ad agosto e ho ricominciato a novembre, ora di nuovo, come altri, magari è una cosa stupida ma servono, sennò dai di matto, tiri i sassi mentre devi aspettare”.
Le dichiarazioni di Alessandra fatte tra marzo e aprile trovano nuovi elementi a giugno, quando la troviamo in una nuova struttura alberghiero a Martinsicuro in cui ancora oggi rimane bloccata. Ci racconta che alla scadenza delle convenzioni di giugno i proprietari dell’altro hotel erano arrivati al limite e descriveva la situazione così:
“Con la nuova stagione loro dovevano ospitare i turisti, io mi sono sentita un peso, ma loro hanno esagerato. Ci hanno tolto i telecomandi dei condizionatori, e hai sentito che caldo fa? Hanno cominciato a trattarci male, forse volevano che ce ne andassimo prima della scadenza delle convenzioni. Infatti noi abbiamo chiesto lo spostamento anticipato. L’apice c’è stato quando la proprietaria ha minacciato mia figlia perché giocava nella sala dove gli anziani vedono la tv. Le ha alzato la voce e non ci ho visto più. Qui siamo più lontani ma almeno siamo tranquilli. Ci hanno divisi di nuovo vedi? Gli altri adesso sono in un albergo a Grottammare”.
Indagando sui nuovi spostamenti ci rendiamo conto che moltissime persone sono ancora in hotel e nuovi scenari si stanno configurando, come ci conferma il responsabile del COA di San Benedetto quando ci rechiamo lì per capire i dati relativi ai cambi di struttura:
“Stiamo aprendo un nuovo albergo a Grottammare perché se alcune persone sono rimaste nelle vecchie strutture, altre che hanno rinunciato al CAS perché gli affitti sono troppo cari, chiedono di rientrare in hotel. Per fare posti stiamo riaprendo un edificio per ospitarli (V.C. 20 giugno 2017)”.
Una dichiarazione che fa riflettere sui processi in corso da un anno ormai e sulle modalità di gestione delle persone sfollare che a fronte di una soluzione abitativa temporanea ed emergenziale si trovano a convivere con quella che sembra essere una soluzione rinnovabile di fronte ai ritardi di consegna dei SAE (soluzioni abitative d’emergenza) e all’irrigidimento dei criteri per l’erogazione del contributo di autonoma sistemazione (CAS).
“È stato un susseguirsi di cadute, poi con le altre scosse il piccolo muro di sicurezza che avevi costruito ricrolla. Se avessero dati i soldi direttamente alla gente stavamo tutti su, le casette ce le eravamo comprate noi. Ci hanno dato una scelta? Che vita facevano le mie figlie se stavamo in una roulotte? Questa è una – vita non vita – non potevo farle vivere in altro modo, non avevo conoscenze o possibilità economiche, l’unica soluzione era l’albergo! Molti mi chiedono se non ho paura per loro che quando torneranno sarà un trauma, e io penso di no, vogliamo tornare tutte, non sarò la madre migliore del mondo ma so che ho fatto la cosa giusta per loro. Ciò che non ha distrutto il terremoto lo sta distruggendo la mente sbagliata di molte persone, chi è debole subisce di più di chi si tutela. C’est la vie”.
Ed è così che ad oggi una soluzione necessaria sul breve periodo, a un anno dal primo terremoto si è cristallizzata senza sapere quanto a lungo verrà utilizzata: i numeri degli sfollati sulla costa adriatica sono 3950 per i marchigiani ospitati in 348 strutture ricettive, 600 per la regione Lazio, 753 gli abruzzesi e 643 gli umbri (dati reperibili sui siti internet delle quattro regioni). Uno scenario in cui sale al 5% il numero dei SAE consegnati sull’intera area del cratere con una rimozione delle macerie pari all’10%. Numeri che per chi, come Alessandra, idealizza un ritorno sperato, per ripartire e poter crescere le proprie figlie, lasciano troppi interrogativi a cui speriamo le istituzioni sappiano fornire risposte e non false speranze: come quelle date alle migliaia di persone costrette in un limbo che annienta la possibilità di partecipare alla ricostruzione fisica e morale del centro Italia.
Le autrici
La fotografa Sara Casna ha studiato fotografia presso la scuola Fondazione Studio Marangoni e si è diplomata successivamente all’Istituto Italiano di Fotografia. Dal 2009 al 2011 ha lavorato come fotogiornalista per un quotidiano regionale, ha pubblicato con le riviste Stern, Internazionale e Corriere della Sera. Nel 2014 è autrice, insieme ad altri colleghi, del libro “Genuino Clandestino”, un progetto di documentazione sulle nuove resistenze contadine. Attualmente lavora come free-lance e parallelamente si dedica a progetti di reportage sociale. Ha esposto al Centro Italiano della Fotografia d’Autore, al 2° Festival Fotografico Italiano, al Festival FotografiaEuropea e nel 2016 è vincitrice del Perugia Social Photo Fest.
L’antropologa Serena Caroselli è nata a Roma e risiede nel comune di Castel Sant’Angelo (Rieti). Attualmente vive facendo spola tra il centro Italia e Genova dove svolge un dottorato di ricerca in Migrazioni Internazionali. Si occupa di donne migranti e Politiche d’Asilo Europee con attenzione ai nuovi confini e alla dimensione del tempo. Tra il 2011 e il 2013 ha condotto la sua ricerca in antropologia medica sulla dimensione del dolore delle popolazioni aymará del nord del Cile e sulle politiche di salute interculturale. Dal 2016 svolge il ruolo attivo di referente e ricercatrice all’interno del gruppo di ricerca Emidio di Treviri sul post- sisma in centro Italia, sia per passione che per vicende personali, risiedendo nell’area colpita dal sisma. In particolare sta lavorando in equipe sulla condizione di salute delle popolazioni sfollate sulla costa marchigiana dalle aree interne del cratere. Ha pubblicato come ricercatrice Emidio di Treviri per Il Lavoro Culturale, nella sezione sismografie: Il terremoto oltre cratere, una prima riflessione sui percorsi diasporici prodotti dalla gestione emergenziale post-sisma.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
Per informazioni e contatti con Lo stato delle cose scrivere qui: osservatoriolostatodellecose
Per essere aggiornati sugli appuntamenti e iniziative dello Stato delle cose potete seguirci anche sui social network seguiteci anche sulla pagina Facebook e sul profilo Instagram ufficiali del progetto.