“Una città non si ricostruisce con un disegno e una bacchetta magica,
imponendo uno stile su un altro. Una città si ricostruisce negli anni, nei secoli”. Ludovico Corrao
Era appena iniziato il ’68, in America ed in Europa. Persino in Italia, forse anche a Palermo; ma non a Gibellina. E neppure a Montevago, Poggioreale, Salaparuta, Santa Ninfa e gli altri piccoli paesi della Valle del Belice. Quando i sussulti della terra sbriciolarono in macerie le umili case di tufo, fermando la vita di coloro che ancora vi cercavano rifugio in quel gelido gennaio, non c’erano proteste ed utopie per la povera gente del Belice, ma la dolorosa esistenza quotidiana di un feudalesimo solo formalmente concluso.
Il ’68, a Gibellina, arrivò qualche anno dopo, con un sindaco visionario e resistente. Che voleva offrire, a quei pochi che non erano già emigrati prima del terremoto, e ai pochissimi sopravvissuti non ancora rassegnati, l’utopia concreta e l’immaginazione potente di una speranza di ricostruzione. Rifondare altrove la città distrutta (ché sulle sue rovine, fu decretato, non si poteva più costruire), ridando dignità agli uomini e alle donne tenaci che la abitavano. Innalzando nuove case, più grandi e moderne, piazze e luoghi di una nuova morfologia visionaria e liberatoria, aperta al dinamismo culturale e al fermento artistico di quel tempo nuovo. Gibellina e, di riflesso, gran parte della valle del Belice, divennero luogo di sperimentazione, di incontro e dibattito, museo a cielo aperto e tessuto di architetture spregiudicate, somma di sforzo collettivo e contributi individuali per la conquista anticipante di una realtà nuova.
Ma l’utopia, sfuggita di mano, dimenticò l’uomo, la sua terra, gli affetti e la memoria: divenne hybris tronfia, vastità lunari di piazze immense e vuote, nonluoghi da colonizzare per generazioni di nuovi terremotati, parcellizzazione di architetture ardite inconcluse e presto bisognose di restauri, reticolo curvato di strade parallele dilatate e indistinguibili, senza soluzione di continuità con la brulla campagna circostante.
Scesi dalla collina, a cercare una vicinanza con gli altri paesi e una connessione al mondo con la nuova autostrada, i terremotati non riuscirono a portare con sé le reti di affetti e di senso, sembrarono smarrire i luoghi del proprio passato e quindi la memoria, per sempre custodita dal vento e dal silenzio ontologico del cemento crepato nel grande cretto di Burri.
Altrove, invece, i ruderi abbandonati si innestano paralleli con le case in costruzione, memoria forse oppressivamente presente di quel dolore ancora non pienamente elaborato. Sembra che qualcuno abbia cercato di riannodare l’ordito delle vecchie stradine sterrate, espandendone l’ideale ricamo nel paese nuovo. Ma la trama del cemento grigio lascia i nuovi palazzi e cumuli di macerie gli uni di fronte agli altri, come lembi di una ferita ancora da rimarginare.
Eppure, vagando tra i paesi del Belice, cercando l’anima di quei paesaggi, il confine è ancora incerto, e non si sa se stia più tra le greggi che brucano placide tra le antiche mura cadute o giù a valle, tra i rumori ordinari di quasi comuni cittadine di provincia, dove nuove generazioni iniziano a sovrapporre i loro vissuti e nuovi valori sulla stratificazione sfagliata di quei luoghi.
Gibellina e i vecchi paesi oggi non esistono più. Le nuove Gibellina, Poggioreale, Santa Margherita, non esistono, pienamente, ancora. Le due generazioni nate dopo il terremoto, per le quali questi nuovi luoghi sono già la propria radice, le stanno lentamente rigenerando di vita, congiungendo la narrazione passata alle dinamiche del loro tempo. E’ una sfida appena intrapresa, di cui oggi non possiamo prevedere gli esiti. Del resto – paradossalmente – le parole di chi si batté per quell’utopia caduta ci ricordano che una città non si costruisce con un disegno imposto. Una città si ricostruisce negli anni, nei secoli.
Gli autori. Il Collettivo FD riunisce i fotografi siciliani Alfonso Arana, Francesco Favara, Pietro Iacono, Antonio Montalto e Carlo Riggi. Il racconto “L’utopia caduta, il confine incerto” è inedito e realizzato come forma di adesione civile e intellettuale al progetto Lo stato delle cose.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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