Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 un violentissimo sisma colpì la valle del Belice, nella Sicilia Occidentale. Il terremoto, localizzato tra i paesi di Gibellina, Poggioreale e Salaparuta, causò 231 morti e tra i 700 e i 1000 feriti. Per molti mesi gli abitanti di questi paesi furono costretti a vivere in tendopoli e, per diversi anni, nelle baraccopoli.
Negli anni seguenti, il Governo Italiano tentò una ricostruzione delle zone colpite. Una nuova Gibellina fu costruita a 20 chilometri da quella vecchia. Ma non era la stessa di quella vecchia. Mentre la vecchia Gibellina subì una rapida morte per mano del terremoto, la nuova Gibellina subì una morte lenta per mano dei pianificatori.
Oggi, nel nuovo paese gli ampi spazi pubblici ostacolano le relazioni della comunità. Le case, progettate dagli architetti che sognavano l’ideale della città-giardino, hanno di fatto cancellato l’abitudine degli abitanti di sedersi sui gradini della porta di casa. Le abitudini sono cambiate. Gli anziani dicono di sentirsi come ospiti nel loro paese, mentre i giovani si sentono orfani di un modo di vivere che non hanno mai sperimentato. Il mio interesse ruota attorno all’avvenuta disconnessione tra queste due generazioni. Che cosa rimarrà nella mente delle nuove generazioni quando l’ultima persona che ha vissuto il tragico evento del terremoto non ci sarà più a raccontare la storia del vecchio paese? E come vivranno e creeranno quegli spazi comuni che sono andati persi?
Mentre la nuova Gibellina è il guscio di un paese, divisa a metà tra il passato e il presente, le rovine dell’antica Gibellina sono diventate il luogo di una installazione artistica. Alberto Burri ha risposto alla catastrofe compattando e coprendo le macerie del paese con uno spesso strato di calcestruzzo bianco, con fessure che lo attraversano seguendo il tracciato stradale originale. L’opera, chiamata ‘Il Grande Cretto’, si può vedere come un sarcofago concettuale, un memoriale del paese.
Sono nato diversi anni dopo il terremoto e sono stato sempre attratto da questa enorme opera d’arte che è il Grande Cretto. Non capivo il significato dell’opera, ma era così immensa e straordinaria che sono tornato diverse volte a visitarla, anche da adulto. Ogni volta che camminavo tra le crepe del Grande Cretto, l’immaginazione di vedere il vecchio paese prendeva sempre più forma. La fantasia mi ha spinto a immaginare la città vecchia, la sua gente e la sua storia, ma anche a domandarmi il significato del concetto di “memoria”. Quindi le proiezioni sui muri del Cretto diventano la radiografia di questo gigantesco sarcofago che racchiude l’anima del paese con le sue strade, la sua gente e le sue storie.
L’autore. Giuseppe Iannello è un fotografo che vive a Palermo. Si è recentemente laureato in Documentary Photography presso la University of South Wales. Il suo primo approccio alla fotografia lo ha visto utilizzare macchine a pellicola, che ancora oggi predilige. Attualmente sta esplorando diversi campi delle arti visive, intervenendo direttamente sui luoghi urbani attraverso cutting off e proiezioni, spingendo i confini tra un lavoro tradizionale bidimensionale e tridimensionale. Il suo progetto Gibellina 1968. Otto minuti dopo le tre ha vinto l’edizione 2017 del Ragusa Fotofestival ed è stato esposto a Milano presso lo Studio Museo Francesco Messina.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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