Otto anni. Sono trascorsi ormai otto anni.
Otto sono stati gli anni della presidenza Obama (gennaio 2009-gennaio 2017) e in quegli otto anni, negli USA, sembra siano fallite 491 banche; nel mondo, poi, in otto anni, sempre dal 2009 al 2017, parrebbe che si passerà da 2,5 a 269 miliardi di downloads di app per cellulari…. E in otto anni, qui, all’Aquila, cosa è successo? Dopo otto anni, come stanno le cose?
Non è facile.
Da dove comincio? Come faccio a raccontare quello che è successo in otto anni? Come faccio a far capire che cos’è un terremoto, ma ancor di più, un post terremoto per un territorio e per chi lo abita e lo pratica tutti i giorni? Qual è il linguaggio più appropriato? E come faccio a decidere cosa è importante da dire e cosa invece può essere tralasciato?
Comincio da dove abitavo con la mia famiglia prima del sisma e fino a quel 6 aprile 2009 alle ore 3.32: Pettino, uno dei quartieri aquilani più recenti, estesi e popolosi (circa 15-20.000 abitanti prima del sisma), nella periferia nord-occidentale della città (figura 1). La storia del quartiere è quella di una delle tante speculazioni edilizie che il nostro Paese ha conosciuto soprattutto a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo:
Negli anni ‘50, Pettino risulta perlopiù occupato da case sparse; l’area, di fatto, è destinata soprattutto all’attività agricola. La nascita del quartiere densamente popolato, sviluppatosi in lunghezza parallelamente all’omonimo monte, si realizza negli anni ’80 – in base al Piano Regolatore del 1975. Proprio a Pettino, anche L’Aquila conosce, come il resto del territorio nazionale, quella “immorale ingordigia” che in Italia “ha consumato un quinto della superficie agricola per coprirla di cemento e asfalto”. Quelli sono gli anni in cui vengono realizzate anche opere importanti per L’Aquila, come per esempio il primo traforo del Gran Sasso che estende il tracciato dell’autostrada A24 da Roma al teramano passando per L’Aquila e che rende Pettino un quartiere particolarmente appetibile.
L’edificazione prosegue anche negli anni ’90 rallentando solo a partire dal 2007. Dal 2002 al 2007 la crescita dell’abitato continua in maniera disomogenea; le nuove costruzioni si localizzano nelle poche zone rimaste ancora disponibili. Nel 2009 il numero di edifici innalzati si riduce ulteriormente ma nonostante ciò nel 2010, primo anno dopo il sisma, nuove costruzioni vedono la luce [rielaborazione da: C. Cerasi in Calandra 2012].
Insomma, il quartiere, con edilizia popolare, cooperative ma anche palazzine di lusso, si configura in trent’anni come prolungamento occidentale della città ma senza i caratteri dell’urbanità dato lo sviluppo disorganico e l’assenza di luoghi pubblici (piazze, mercati, parchi, ecc.). Per di più, praticamente tutto il quartiere risulta costruito secondo la normativa prevista per le zone sismiche di grado 2 (medio rischio) e non di grado 1 (ad alto rischio) su terreni da tempo noti per fenomeni di amplificazione sismica.
Nel marzo del 2008, ovviamente ignara di quello che il futuro aveva in serbo per tutti noi, a proposito di Pettino, cioè del “posto” nel quale vivevo, per il blog di un’amica scrivevo queste parole:
“Tutte le mattine esco di casa e, percorrendo più o meno le stesse strade, accompagno mio figlio a scuola; poi, quasi sempre percorrendo le stesse strade del giorno precedente, proseguo per il centro e vado a lavoro. E quasi tutte le mattine, guardandomi attorno, con un po’ di preoccupazione faccio sempre la stessa considerazione: ma che storie è in grado di raccontare a chi lo abita, un quartiere in cui se si rimette mano al manto stradale è solo perché si è sotto elezioni; se qualcosa si muove è solo per spianare e scavare terreni sui quali in breve tempo si vedono sorgere altre abitazioni; se quelle poche, pochissime, opere pubbliche, ancora prima di nascere sono già morte?
Sto parlando di Pettino, dove abito dal 2001. Da pochi anni, è vero, e perciò mi scuso se le mie limitate considerazioni non potranno fare appello ad una memoria storica più profonda. Eppure sono comunque sette anni, durante i quali il volto di questo quartiere è cambiato profondamente e non sono sicura che ciò sia avvenuto e continui ad avvenire nel migliore dei modi. Perché mentre continuano a sparire gli spazi aperti, mentre gli spazi pubblici continuano ad essere assenti, mentre si continua a consumare suolo, o meglio, quella meravigliosa e delicata impresa collettiva che è il territorio, ho l’impressione che intorno a me sorgano sempre più cancelli e muri. […]
Il sentimento che sia necessario chiudere ed escludere, questo è il punto, non nasce a caso in una collettività; le recinzioni e i cancelli non sono solo il frutto della libera scelta di individui che decidono del loro spazio di vita. Recinzioni e cancelli, in realtà, sono anche – e io aggiungerei, soprattutto – il risultato di un condizionamento, più o meno forte, più o meno consapevole, ma comunque di un condizionamento che il territorio è in grado di produrre su quelli che lo abitano.
Di quale condizionamento sto parlando? Di quello che subdolamente ma molto incisivamente si insinua nell’animo di chi subisce suo malgrado e/o per sua incuria, la trasformazione del contesto di vita, del “paesaggio del quotidiano”, senza sentirsi veramente parte del processo decisionale che porta a tale trasformazione, tanto più, poi, se tale trasformazione è una vera e propria “degradazione” del territorio.
E il territorio, questa è la mia convinzione, è un essere – per così dire – vendicativo: prima o poi presenta il conto. Perché se i suoi abitanti non si prendono cura di lui, egli prima o poi smetterà di prendersi cura di loro. Come? Un modo, appunto, di presentare il conto è quello di condizionare il comportamento di chi lo abita in senso negativo: verso il disinteresse, la disaffezione, l’indifferenza, il disorientamento, la tristezza, la bruttezza (e qualcuno aggiungerebbe la psicosi!). […]
Insomma, quando in un territorio la collettività e gli spazi pubblici condivisi e condivisibili passano in secondo piano, i racconti e le storie che possono contribuire a costruire identità e senso di appartenenza si impoveriscono miseramente e con essi anche noi diventiamo più fragili” [http://www.laquilacittafutura.it/eso-tiengo/che-storia-racconta-un-quartiere/#more-21].
Figura 1 – La dislocazione spaziale di quartieri, frazioni e località nel territorio comunale dell’Aquila
(il quartiere di Pettino è rappresentato con il n. 23)
Ecco, quella notte il territorio di Pettino smette di prendersi cura dei suoi abitanti, di sostenerli, sorreggerli. A Pettino c’è stata una vittima. E dopo la scossa, circa il 38% delle abitazioni è risultato gravemente danneggiato tanto da richiedere pesanti interventi strutturali e il più delle volte addirittura la demolizione; circa il 30%, riportando danni meno gravi, è risultato inagibile seppure “temporaneamente”; e solo il 32% avrebbe potuto essere riabitato di nuovo da subito. Avrebbe potuto, perché in realtà per lungo lungo tempo, praticamente nessuno torna a vivere a Pettino… Per lungo lungo tempo, le abitazioni da cui la sera si intravede qualche luce accesa non arrivano neppure alla decina. Solo con la conclusione della ricostruzione “leggera” (fine 2012-inizi 2013), cioè delle abitazioni senza danni strutturali, tornano a vedersi, un po’ sparse, luci accese e, bellissimi, i fiori sui balconi.
E la casa dove vivevo prima del terremoto? Abbattuta, ricostruita e consegnata dalla ditta a maggio 2016. Ma la mia famiglia ed io non siamo tornati a viverci. Siamo in affitto nel centro storico dell’Aquila. Perché? Sono passati tanti anni; mio figlio era un bambino e ora è un adolescente; e, in fondo, cosa mi/ci lega a Pettino?
Nel dicembre del 2011, in occasione di uno dei tanti eventi, forse anche dei “troppi” eventi, che si sono tenuti e continuano a tenersi a L’Aquila sulla ricostruzione, scrivevo queste parole:
“Perché dovrei tornare a vivere a Pettino dopo che avranno ricostruito la mia casa, dopo che avranno ricostruito tutte le case? Diciamoci la verità: Pettino non era un quartiere (come non lo sono i C.A.S.E.), ma una accozzaglia informe di edifici costruiti su terreni noti agli “esperti” per la scarsa qualità; costruiti parallelamente alla faglia di Monte Pettino; costruiti in buona parte con criteri antisismici insufficienti… I servizi? Mah, sì. Bene o male c’erano. Ma comunque, a Pettino, senza macchina non vai da nessuna parte. Ma no, che dico: anche con la macchina, dove vai a Pettino? Non una piazza, non un parco, non un mercato, non un campo sportivo. I marciapiedi? Qualche panchina? Non so, non ricordo. Potrei immaginare di tornare a Pettino se potessi dire la mia, se potessi decidere con altri che forma dare ai luoghi dell’abitare e non solo se riavrò una casa nuova!” [http://www.laquilaemotion.it/tags/rena.html].
Tra le tante cose che un post terremoto consente di mettere subito a fuoco, anche ai più distratti, è l’importanza dei luoghi, a cominciare dai luoghi della quotidianità. Il terremoto è “disorientamento” perché d’improvviso, senza i luoghi di sempre (belli o brutti che siano), non sei più in grado di fare quello che prima davi per scontato e di essere quello che credevi di essere. E cambiando i luoghi della quotidianità, inevitabilmente cambi anche tu, cambia chi ti sta intorno, cambia il “mondo” e il senso che attribuisci a ciò che ti circonda…
Tra il 2012 e il 2013, queste sono, in sintesi, le riflessioni che, come gruppo di ricerca-azione partecipativa/partecipante (RAPP) del Laboratorio Cartolab (Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila), abbiamo elaborato e presentato in varie sedi e in diverse forme:
L’Aquila, oggi, conosce una complessiva scarsa qualità dei luoghi della quotidianità: i luoghi che pratichiamo non sono più capaci di “farci sentire bene e sicuri dove siamo”, di orientare il nostro comportamento – dei singoli e delle comunità – verso la socialità, la solidarietà, i rapporti di prossimità, il senso di appartenenza, l’attenzione per gli spazi pubblici. La qualità dell’abitare è per intere aree del Comune piuttosto modesta, per tutta una serie di ragioni che nel complesso hanno a che fare con alcune scelte emergenziali e con alcune dinamiche socio-territoriali in parte già in atto prima del 6 aprile 2009 e che il terremoto ha contribuito ad accelerare.
La condizione di frammentazione che vive attualmente il territorio aquilano è causata, da una parte, dalla disarticolazione degli assetti urbani precedenti al sisma, per effetto della distruzione materiale ma anche di scelte emergenziali come quella, per esempio, di istituire le zone rosse; d’altra parte, dalla ri-articolazione dell’abitato che, soprattutto con la realizzazione dei 19 siti C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) e con la ri-localizzazione (provvisoria? temporanea?) sostanzialmente casuale di uffici e servizi, è esploso allungando l’abitato su un asse di circa trenta chilometri di lunghezza (figura 2).
I diciannove diversi siti C.A.S.E. per la quasi totalità sono localizzati sulle strade statali, soprattutto in aree rurali e periferiche rispetto al precedente tessuto più o meno continuo della città. Si tratta per lo più di siti privi non solo di qualunque punto di riferimento affettivo e simbolico, ma anche materiale e organizzativo con servizi assenti o comunque carenti. A seconda del sito vengono alloggiate dalle 200 alle 2.000 persone. Nel contempo, anche funzioni e attività si ri-localizzano (quando non scompaiono) senza un coordinamento. Chiudono o cambiano localizzazione uffici postali, esercizi commerciali, studi professionali, ecc.; si spezzano le relazioni e le pratiche orientate alla prossimità come, per esempio, quelle legate ai servizi postali: prima del sisma il 60% delle persone si recava agli uffici postali vicino casa; oppure al medico di famiglia: dopo il terremoto il 25% delle persone è costretto a cambiare medico o non sa dove si sia ri-localizzato il suo.
Alla fratturazione del tessuto abitativo fa seguito una repentina accelerazione delle dinamiche di dispersione e atomizzazione della popolazione (figura 3) che determina un diffuso malessere; disorientamento nei singoli individui privati del loro abituale rapporto identitario con i luoghi; incertezza derivante dalla banalizzazione della complessa dimensione dell’abitare al solo abitato – o addirittura alla sola abitazione (figura 4); insicurezza, chiusura nel privato e ripiegamento nel proprio ambito familiare.
Figura 2 – Il territorio aquilano dopo il sisma del 6 aprile 2009 (situazione aggiornata al settembre 2011)
Figura 3 – Principali flussi di dispersione della popolazione verso i C.A.S.E. (dati: 2010)
Figura 4 – L’abitare stravolto: Paganica “vera” e Paganica 2 (C.A.S.E.)
La forma che il territorio assume dopo il terremoto condiziona il comportamento attuale degli abitanti e condiziona di fatto la costruzione futura della nuova socialità aquilana per almeno tre ragioni: 1) perché la nuova distribuzione dell’abitato e degli abitanti non tiene in nessun modo conto dei legami, delle reti di solidarietà e prossimità preesistenti; 2) perché essa condiziona nel presente la tenuta simbolica, economica e organizzativa della socialità; 3) perché essa vincola la ri-configurazione futura degli spazi di vita, di lavoro, a decisioni prese in piena fase emergenziale per dare risposta a un bisogno, quello abitativo, comunque temporaneo e transitorio in quanto legato alla ricostruzione.
A seguito del sisma, la quotidianità degli aquilani si ritrova a fare i conti con bisogni e comportamenti del tutto inediti. Per migliaia di persone diventa un problema fare la spesa, ritirare la pensione, ricevere la posta, andare dal medico, andare a lavoro, accompagnare i figli a scuola.
Ancora oggi [2013], a oltre quattro anni dal 6 aprile 2009, la mobilità rappresenta uno dei problemi maggiori sia per la carenza di servizi pubblici che per la viabilità stravolta in termini di: a) percorsi, per la ri-localizzazione più o meno temporanea ma fondamentalmente “casuale” e caotica di uffici, locali, funzioni, ecc.; b) flussi, per la concentrazione di 1.000-2.000 persone in aree equipaggiate, come per esempio nel sito di Cese di Preturo, a sopportare carichi di mobilità di solo alcune centinaia di residenti; c) tempi di percorrenza, soprattutto per il congestionamento dei principali assi viari come le strade statali 17 e 80 o per le chiusure più o meno temporanee di strade per lavori legati alla ricostruzione (abbattimenti, cantieri, sottoservizi, ecc.). Del resto, dalla quasi totalità dei C.A.S.E. – e non solo – risulta praticamente impossibile “andare a piedi” a lavoro, a scuola, a fare la spesa o anche semplicemente a
“fare una passeggiata” (figura 5).
Figura 5 – Mobilità cittadina: mezzo di trasporto pre e post sisma (dati: 2010)
A diciotto mesi dal sisma, cambiano le abitudini riguardanti gli acquisti e nello specifico i luoghi in cui si va a “fare la spesa” (figura 6): se prima del sisma la spesa si faceva nel supermercato vicino casa (44%) e nel mercato giornaliero di Piazza Duomo (21%), dopo il terremoto un quarto degli aquilani fa la spesa “dove capita”, il 13% nelle “bancarelle per strada” e la percentuale di coloro che si recano in un centro commerciale sale di undici punti, dal 14% al 25%. A tal proposito, va evidenziato come appunto in diciotto mesi dal sisma il numero di centri e gallerie commerciali nel Comune dell’Aquila risulti raddoppiato.
Allo stesso modo, anche rispetto al tempo libero si manifestano cambiamenti di abitudini importanti (figura 7): diminuisce la percentuale di coloro che – ovviamente – vanno in centro storico (dove prima il 35% delle persone andava anche per lo shopping) ma anche di coloro che si recano al cinema e al teatro. Colpisce, invece, il significativo aumento di persone che trascorre il suo tempo “a casa”, mettendo in evidenza la tendenza al ripiegamento del singolo su se stesso e sul proprio ambito familiare.
Figura 6 – Comportamenti quotidiani: dove si va a fare la spesa (dati: 2010)
Figura 7 – Comportamenti quotidiani: come si passa il tempo libero (dati: 2010)
Ora, il punto è che il cambiamento delle abitudini non è il frutto di libere scelte ma il risultato del condizionamento che il territorio, così come si è andato configurando dopo il sisma, opera su chi lo vive. E il punto è che tale cambiamento “indotto” non va nella direzione della ricostruzione della socialità, delle reti di prossimità, di fiducia, di solidarietà: potersi spostare solo in macchina e comunque passare più tempo in macchina, riduce le occasioni di incontrarsi e magari di andare a prendersi un caffè dopo aver accompagnato i figli a scuola; non fare più la spesa dal commerciante di fiducia, ma “dove capita” o al “centro commerciale”, rende impersonali le pratiche relative agli acquisti; passare il proprio tempo libero prevalentemente “a casa” è il segno di atteggiamenti di chiusura, di sentimenti di sfiducia, insicurezza, scoraggiamento [rielaborazione da vari testi, si veda principalmente: Castellani, Palma, Calandra, 2016].
E tra il 2015 e il 2016, sempre come gruppo di ricerca del Laboratorio Cartolab, torniamo a fare il punto “scattando un’altra istantanea” di come stanno le cose all’Aquila, per il suo territorio, per i suoi abitanti. Le persone che riusciamo a raggiungere – sia giovani che adulti – per la ricerca, condotta nel seno di alcuni percorsi di partecipazione promossi dall’Amministrazione comunale nel 2012-2013, non sono contente, hanno paura, sono insicure, fanno fatica, tanta fatica, ad avere speranza, a “vedere” il futuro. Perché? Quali sono le percezioni e le narrazioni che i singoli e le comunità elaborano del proprio contesto di vita? Come valutano la qualità del rapporto che, nel dopo terremoto, si è andato instaurando tra loro e il territorio che praticano tutti i giorni?
I risultati mostrano come gli adulti coinvolti nell’indagine elaborino sulle varie componenti territoriali (economica, sociale, culturale, urbanistica e politico-amministrativa) una valutazione più negativa rispetto a quella dei giovani, fatta eccezione per la componente politico-amministrativa sulla quale sono i giovani a mostrarsi più severi (figura 8a); e come gli adulti si esprimano più negativamente anche rispetto alle attuali condizioni di vita (figura 8b). E però, mentre la stragrande maggioranza degli adulti dichiara di non aver pensato di trasferirsi in un’altra città, quasi la metà dei giovani non solo lo indica sul questionario (figura 8c) ma, durante gli incontri nelle classi coinvolte, lo esprime letteralmente in coro. Tra gli adulti, a pensare di andare via sono soprattutto le giovani famiglie, comprese nella fascia d’età 31-45, con uno o più bambini, principalmente per “mancanza di lavoro”, per la “difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione” e per “sfiducia nella ricostruzione”. Tra i giovani, la principale motivazione per andare via è legata alla considerazione che la città non offre “prospettive future” e alla “difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione”.
Nel caso degli adulti, quello che si configura è un rapporto con il territorio problematico non solo nella sua proiezione presente ma anche in quella futura: al presente la narrazione si articola sul “tutto (o quasi) va male” e spesso si costruisce in antitesi al passato, quando “tutto andava meglio”; nel contempo, del futuro non si riesce ad avere una visione. In effetti, nel questionario veniva chiesto di indicare tre aggettivi per descrivere il territorio aquilano oggi e tre per descriverlo tra vent’anni: mentre più dei 2/3 degli adulti indica quelli riferiti al presente, oltre il 53% non fornisce quelli proiettati al futuro, spesso rispondendo con punti interrogativi o esclamazioni e commenti del tipo:
“Tra vent’anni sarò morto”;
“Ci vorrebbe un indovino”;
“Perché, secondo voi avrà un futuro?”;
“Non ho tanta immaginazione”;
“Dipende tutto dall’impegno politico-amministrativo”;
“Mah, speriamo bene!”.
Il risultato, appunto, è che la maggioranza degli adulti (tra quelli che non rispondono e quelli che esprimono una difficoltà nell’immaginare il territorio tra vent’anni), non riesce a sentirsi “implicato” dal futuro del proprio territorio (figura 8d). Così, da una parte, come si è detto, la maggior parte di essi non pensa di trasferirsi in un’altra città; ma dall’altra, di essa non ne immagina un futuro. In altre parole, ci si sente “prigionieri del” territorio piuttosto che “coinvolti dal” territorio:
“Dove vuoi che vada, abbiamo il lavoro, la famiglia… però qua ormai non si sta più bene, non è più come prima!”.
Riguardo ai giovani, se da una parte la proiezione al presente appare più obiettiva e ponderata su dati di realtà (“Non è vero che fa schifo tutto, alla fine si riesce pure a stare bene e poi all’Aquila, per esempio, c’è il Conservatorio, l’Accademia, l’Università… insomma, ci sono anche cose importanti”), dall’altra la proiezione al futuro si rivela per molti (troppi) anche più pessimistica rispetto a quella degli adulti (figura 8d): in effetti, rispetto agli adulti le percentuali di chi vede il territorio tra vent’anni “uguale” o “peggiorato” sono più alte, e sempre importante è la fetta di coloro che non riescono ad avere una visione futura (“Non ne ho la più pallida idea!”; “Non vedo futuro”; “Boh!”).
Figura 8 – Narrazioni geografiche a confronto: la qualità del territorio secondo gli adulti e i giovani (dati: 2013)
Un altro dato è risultato indicativo del deterioramento nel rapporto abitante-territorio e, più in particolare, dello stato della convivenza. Una fetta molto ampia, sia di adulti che di giovani (rispettivamente il 43% e il 45%), ritiene che una parte della popolazione abbia migliorato le sue condizioni dopo il sisma e grazie ad esso. Oltre che “furbetti”, “disonesti”, “tecnici ed imprese edili”, “politici”, “extra-comunitari”, molto frequentemente vengono indicati anche coloro che usufruiscono, come forma di assistenza, di certe soluzioni abitative, in primis il C.A.S.E. (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili):
“Sicuramente ci ha guadagnato chi non aveva una casa di proprietà prima del terremoto, era in affitto (magari in una casa fatiscente e magari pure extra-comunitario) e ora nelle C.A.S.E. si ritrova pure con la lavastoviglie e non paga niente!”;
“È chiaro, ci stanno guadagnando quelli che stanno nei C.A.S.E. che tutti noi paghiamo a caro prezzo…”.
Tale conflittualità, poi, si tinge anche dell’idea di ingiustizia, per esempio, da parte di chi alloggia nei C.A.S.E.:
“Non è giusto! Io quando ho preso l’appartamento C.A.S.E. non sapevo che fosse considerato tutto un mega-condominio e che quindi le spese delle parti comuni fossero a carico mio. A Pagliare di Sassa abbiamo il laghetto: ma chi lo vuole!? Io non pagherò, perché se pago è come se accettassi tutto quello che succede… È il Comune che deve accollarsi le spese comuni. Noi non abbiamo chiesto di andare a finire in questi posti!!”;
“Invece di mettere in croce noi, perché l’Amministrazione non se la prende con quelli che prendono il C.A.S. (contributo di autonoma sistemazione) non per pagarci l’affitto ma per rifarsi la macchina nuova!?”.
Che le cose stiano o meno così meriterebbe un discorso a sé: quel che qui interessa sottolineare è quanto risulti diffusa la percezione che, in un modo o in un altro, molti, in occasione dalla propria ricollocazione e risistemazione sul territorio, abbiano fatto “i furbetti”, abbiano “approfittato della situazione”. Se ne desume una narrazione del territorio orientata alla contrapposizione e alla conflittualità sociale, accompagnata da sentimenti di “ingiustizia”:
“E come vuoi che stia? Io sono finita al progetto C.A.S.E. di Collebrincioni mica a quello di S. Antonio dove hai tutto a portata di mano! Sicuramente a S. Antonio ci hanno messo tutti gli amici dei politici e di gente che conta…”.
Venendo, poi, ad un altro aspetto preso in considerazione dalla ricerca, ossia la percezione di (in)sicurezza, i risultati permettono di evidenziare come certi luoghi contribuiscano più di altri alla diffusione di un senso di paura, diffidenza, chiusura nei confronti del proprio contesto di vita alimentando un forte sentimento di insicurezza. In generale, la percezione di insicurezza risulta molto diffusa tra le persone, ma essa è decisamente più pronunciata tra coloro che vivono nei C.A.S.E. e nei M.A.P. (Moduli abitativi provvisori).
A fronte di un 28% di persone che dichiara di aver subito un reato nel dopo terremoto (di cui quasi il 30% non denuncia alle forze dell’ordine), il 33% afferma di essersi trovato, sempre dopo il terremoto, in una concreta situazione di pericolo: tra coloro che vivono nei C.A.S.E.-M.A.P., però, la percentuale sale al 55% (figura 9a). Allo stesso modo, il 64% afferma di sentirsi meno sicuro dopo il sisma ma tra chi vive nei C.A.S.E.-M.A.P. il valore sale al 77% (figura 9b). Come è possibile questa forte percezione di insicurezza? E come si spiegano tali differenze?
Una così alta percezione di insicurezza si spiega solo in minima parte in riferimento al tasso di criminalità e solo in parte in riferimento al rischio di subire un reato o comunque atti ritenuti lesivi della propria incolumità e di quella dei propri familiari. Evidentemente concorrono altri fattori tra i quali quelli che qui preme sottolineare e che fanno riferimento al rapporto che nel dopo terremoto si è andato instaurando tra il territorio e i suoi abitanti: un rapporto che, considerando anche quanto già detto rispetto alla valutazione del proprio contesto di vita, da fisiologico sembrerebbe volgere, almeno per certi aspetti, al patologico.
In effetti, entrando nel merito dei luoghi e delle situazioni in cui ci si sente più insicuri, colpisce, ma non lascia del tutto perplessi, il dato del 53% delle persone che indica “uscendo la sera” (figura 9c): il valore, benché più elevato, tutto sommato rientra nell’ordine di grandezza di dati simili a livello nazionale. Anche in questo caso, la differenza tra chi vive nei C.A.S.E.-M.A.P. e chi vive in altra tipologia di abitazione è significativa. Alla domanda diretta “Quanto ti senti sicuro per strada da solo quando è buio nella zona in cui abiti?”, il 55% di chi vive nei C.A.S.E.-M.A.P. risponde “poco” o “per niente” e il 13% non esce di casa; per gli altri è quasi esattamente il contrario: il 52% si sente “molto” o “abbastanza” sicuro con un 9% di persone che dichiara di non uscire.
Invece, risulta decisamente sorprendente che il 48% di chi risponde indichi “in casa” (57% nei C.A.S.E.-M.A.P.). È vero che tale valore va in parte ridimensionato dal momento che alla domanda esplicita del questionario “Quanto ti senti sicuro quando è buio e ti trovi in casa?”, il 62% risponde “molto” o “abbastanza” sicuro; tuttavia, resta il fatto che la percentuale di chi si sente “poco” o “per niente” sicuro in casa permane alta: 37% nel complesso e 56% tra coloro che vivono nei C.A.S.E.-M.A.P. (figura 9d).
Figura 9 – Percezione di insicurezza
I risultati, quindi, mostrano come di fatto la dimensione socio-territoriale giochi un ruolo importante nella percezione di insicurezza: un conto è abitare in una casa nella quale bene o male si è scelto di stare e che risulta inserita più o meno coerentemente in un tessuto abitativo; e un conto è vivere in una abitazione in cui “non si è scelto di stare”, lontana dai principali riferimenti memoriali, relazionali e progettuali e avulsa da un qualsivoglia tessuto come, appunto, la quasi totalità dei C.A.S.E..
Nel quadro di tali considerazioni, infine, sono significativi anche altri risultati dell’indagine: quelli sulla percezione dello stato di degrado del territorio. Rispetto alle zone di abitazione, in generale, i rispondenti dichiarano di assistere a: atti di vandalismo (34%); abuso di alcool (31%); spaccio/uso di droghe (16%); presenza di vagabondi (16%). Ma, di nuovo, nei C.A.S.E.-M.A.P. è il 54% a riferire di atti di vandalismo e il 24% di spaccio/uso di droghe. Nel contempo, rispetto ai luoghi frequentati (diversi da quelli di abitazione), capita di vedere: situazioni di abuso di alcool, soprattutto la sera nel centro storico dell’Aquila (50%); atti di vandalismo (46%); vagabondi (42%) e spaccio/uso di droghe (28%). Infine, sempre sulla percezione di degrado, oltre il 50% dei rispondenti lamenta una inadeguata illuminazione pubblica e la condizione di scarsa o assente cura, pulizia e manutenzione delle strade.
Ma le cose stanno veramente così? È “solo” una percezione?
Comunque stiano le cose, quello che qui preme sottolineare è che nelle narrazioni, in particolare quelle espresse pubblicamente, emerge chiaramente un disagio, o comunque il bisogno di esprimerlo, che mette in evidenza la difficoltà in atto nel rapporto abitante-territorio [rielaborazione da: Calandra, 2016].
E adesso? Che facciamo? Come stanno le cose all’Aquila? Ci torniamo o no a Pettino? E qui, in centro storico, come va?
Quello che è successo all’Aquila con il sisma del 6 aprile 2009, quello che è successo a me, alla mia famiglia, ai miei amici, alla città tutta ha a che fare anche – e forse soprattutto – con la difficoltà, definitasi nel corso di decenni, di governare cognitivamente, materialmente e organizzativamente la città e il territorio nel suo complesso; una difficoltà, e forse più profondamente anche una incapacità, che riguarda certamente i vari livelli istituzionali ma che è possibile cogliere a partire anche dai comportamenti quotidiani dei singoli abitanti del territorio.
A oltre un anno dal sisma, a dare il via alla conversazione tra persone che magari non si vedevano da un po’, era sempre la stessa ossessiva domanda: «Dove stai adesso?». Poi, a oltre tre anni dal sisma, il disorientamento delle persone, in un territorio che non riconoscono più, si coglieva nella fatica di “darsi appuntamento” da qualche parte: “Dove? Dove prima c’era la pizzeria?”, “La pizzeria? Quale? Ah, perché lì c’era una pizzeria?! Beh, no, non ricordo… e comunque è dove adesso c’è il nuovo negozio di articoli sportivi”. Poi ancora, la domanda ricorrente è diventata: “Sei rientrato a casa tua?”.
È qui la difficoltà di vivere a L’Aquila dopo il terremoto: ri-orientarsi e ri-appropriarsi dei luoghi della quotidianità. Difficoltà, però, che è anche una sfida e che potrebbe diventare una opportunità di crescita, di maturazione e di responsabilizzazione come cittadini e abitanti del territorio. I ragazzi, in questo, hanno sicuramente un vantaggio: per loro è evidente che un luogo è tale se “ci si sta”, “ci si va”, “ci si incontra”. Per i ragazzi, subito dopo il sisma, il luogo dove stare ed essere è stato soprattutto il centro commerciale L’Aquilone; poi il trafficato viale della Croce Rossa con i locali in strutture “temporanee e provvisorie” a ridosso di marciapiedi sconnessi; poi ancora “pezzettini” di Centro storico (Piazza Regina Margherita, scalinata di S. Bernardino, un “pezzo” di Corso, un “pezzo” di Piazza Palazzo…). Senza bisogno di rivendicare e pretendere, i ragazzi sanno che sono le persone e le relazioni che fanno i luoghi perciò si danno appuntamento e si incontrano, comunque. E in questo i ragazzi hanno ragione; ma in questo i ragazzi non andrebbero lasciati soli…
Il diffuso malessere sociale ha a che fare con la repentina accelerazione delle dinamiche di dispersione spaziale e conseguente atomizzazione della collettività; con il disorientamento che investe profondamente nella quotidianità singoli individui e intere comunità, privati del loro abituale rapporto identitario con i luoghi; con il senso di incertezza che deriva dalla banalizzazione della complessa dimensione dell’abitare al solo abitato – o addirittura alla sola abitazione – e che produce nei singoli la chiusura nel privato e il ripiegamento nel proprio ambito familiare. I comportamenti di chiusura, di ripiegamento e i sentimenti di solitudine e insicurezza in genere non nascono a caso in una collettività.
In questo consiste l’opportunità: riappropriarsi della capacità di scegliere, di definire i propri ambiti di libertà, di prendersi cura dei propri luoghi dell’abitare con responsabilità e competenza, da cittadini “maturi”. L’opportunità della ricostruzione è anche questa: riuscire ad apprendere dagli errori e dall’esperienza vissuta per confezionare un saper fare “giusto”, un saper vivere “pertinente”, una conoscenza “coerente” per abitare bene e sicuri il proprio territorio. Non si tratta solo di ricostruire la propria casa, ma di ri-formulare la problematica della ricostruzione a partire dai dove del proprio vissuto focalizzando l’attenzione sulla qualità dei legami che ognuno intrattiene con tali dove.
Come giustamente sottolineava qualche insegnante nel 2009, il vero “miracolo” aquilano dopo il sisma è stata la ripresa delle attività in tutte le scuole e in tutto l’Ateneo. Ecco l’opportunità: siamo capaci di far diventare la scuola e l’università luoghi per rendere consapevoli i ragazzi e responsabilizzarli rispetto ai propri luoghi di vita, di studio, di svago, di impegno civico? Siamo capaci di rendere le scuole e l’università luoghi di elaborazione di conoscenze e competenze utili a vivere il territorio consapevolmente e responsabilmente?
Sono già (o forse ormai?) passati otto anni… e a governare le nostre vite non è neppure più il rischio ma la totale incertezza…
Riferimenti bibliografici
2012 – L.M. Calandra (a cura), Territorio e Democrazia. Un laboratorio di geografia sociale nel doposisma aquilano, L’Una, L’Aquila.
2016 – L.M. Calandra, “Tra percezione e realtà: verso una valutazione delle manifestazioni di disagio socioterritoriale all’Aquila dopo il sisma”, Epidemiologia & Prevenzione, 40 (2) Suppl. 1, pp. 72-81.
2016 – S. Castellani, F. Palma, L.M. Calandra, “La riconfigurazione territoriale dell’Aquila dopo il sisma del 2009 e il cambiamento dei luoghi e dei comportamenti della quotidianità”, Epidemiologia & Prevenzione, 40 (2) Suppl. 1, pp. 82-92 (con S. Castellani e F. Palma).
Altri riferimenti:
2012 – L.M. Calandra, “Per una geografia sociale dell’Aquila post-sisma. Comunicazione visuale e nuove forme di democrazia”, in: C. Cerreti, I. Dumont., M. Tabusi (a cura di), Geografia sociale e democrazia. La sfida della comunicazione, Roma, Aracne, pp. 287-311.
Versione presentata al IV colloquio italo-francese di Geografia sociale, Roma 30 marzo-1° aprile 2011:
2012 – L.M. Calandra, “Rischio, politica, geografia: il caso del terremoto dell’Aquila”, in: A. Di Somma, V. Ferrari (a cura), L’analisi del rischio ambientale. La lettura del geografo, Valmar, Roma, pp. 125-140.
https://www.academia.edu/7777312/Rischio_politica_geografia_il_caso_del_terremoto_dell_Aquila
2012 – L.M. Calandra, “Territorio e democrazia: considerazioni dal post-sisma aquilano”, in: F. Carnelli, O. Paris, F. Tommasi (a cura), Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma, Edizioni Effigi, Arcidosso, pp. 27-39.
2015 – L.M. Calandra, “Territorialità e processi di partecipazione: verso una cultura della prevenzione”, in F. Carnelli, S. Ventura (a cura di), Terremoti e rischio sismico: valutare, comunicare, decidere, Carocci, Roma, pp. 146-170.
2015 – L.M. Calandra, “Laboratorio Città: un’esperienza di partecipazione tra ricerca, società e politica nel post sisma aquilano”, R. Angelini, R. D’Onofrio (a cura di), Comunicazione e partecipazione per il governo del territorio, Franco Angeli, Milano, pp. 317-328.
2016 – L.M. Calandra, S. Castellani, F. Palma, “Il laboratorio Cartolab nel post sisma aquilano: ricerca e partecipazione all’interfaccia tra politica e società”, in: A. D’Ascenzo (a cura di), Terremoti e altri eventi calamitosi nei processi di territorializzazione, Labgeo Caraci, Roma, pp. 185-201.
2016 – L.M. Calandra, “Practices after a Disaster: Geographical Narratives vs Territorial Dispersion”, in: G. Strappa, A.R. Donatella, A.A. Camporeale (eds.), City as organism: new visions for urban life, U+D edition, Rome, pp. 485-496 (https://www.urbanform.it/city-as-organism-isuf-rome-2015/)
2016 – L.M. Calandra, T. Gonzalez Aja, A. Vaccarelli, “Dalle emergenze territoriali all’innovazione educativa: il progetto “Outdoor training e cittadinanza” nel post terremoto aquilano e le sue possibili estensioni educative”, in: L.M. Calandra, T. Gonzalez Aja, A. Vaccarelli (a cura di), L’educazione outdoor. Territorio, cittadinanza, identità plurali fuori dalle aule scolastiche, Pensamultimedia, Lecce, pp. 19-41.
L’autrice. Lina Calandra è professore associato di Geografia presso il Dipartimento di Scienze Umane, Università degli Studi di L’Aquila, dove insegna Geografia, Cartografia e Geografia urbana e regionale. Dal 2011 è responsabile scientifico del laboratorio cartografico e GIS “Cartolab”. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Napoli “L’Orientale” nel 2004 in Geografia dello Sviluppo con tesi: “Colonialismo e Ambiente in Africa coloniale: Italia e Francia a confronto”. I suoi campi di ricerca riguardano la geografia del colonialismo in Africa; la conservazione ambientale, con particolare attenzione al rapporto tra conflitti ambientali e sviluppo locale (sia in Africa che nei Parchi appenninici) e alla partecipazione come metodo di governo dei territori protetti; la didattica della geografia. È stata Responsabile dell’Ufficio di redazione della rivista Terra d’Africa dal 2004 al 2009.
Dopo il terremoto del 6 aprile 2009 che ha colpito L’Aquila, si occupa anche di geografia sociale e ricerca-azione partecipativa in relazione alle conseguenze sociali, territoriali e politiche dei disastri. Ha pubblicato numerosi articoli di rilievo nazionale e internazionale, volumi e curatele:
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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