È tarda notte. Mi lascio l’arancione dei lampioni alle spalle per immergermi nel buio dei vicoli. L’auto è parcheggiata in una zona dove non c’è più vita; posti liberi altrove non c’erano e questa è una soluzione pratica che pochi adottano. La città è vissuta a comparti. Cammino rapido. Ho sonno. Ho bevuto. La mente si muove più rapida, torna sempre lì. I pensieri si dispongono in forma di dialogo ignorando la direzione, non la destinazione.
Non dovremmo aver paura del terremoto, penso; vorrei dire. Il terremoto è come un soffio di vento, un’onda del mare, la neve che cade, un colpo di tosse. Cose di cui abbiamo paura soltanto quando oltrepassano una certa soglia, la soglia del controllo, quando sfociano, insomma, nella sfera dell’imponderabile. Ed è normale, penso. Tuttavia, al passo successivo, il pensiero si dispone già su un’altra linea: dopo il passaggio di una bufera, di un maremoto, dopo un’abbondante nevicata o una polmonite, però, quei piccoli segnali tornano a non spaventarci più. Mentre quando fa una breve scossa di terremoto, anche la più impercettibile, perché siamo assaliti dal terrore e ci ritroviamo scaraventati di nuovo nel panico?
Vorrei rollare una sigaretta, ma dovrei rallentare il passo.
Gli aquilani sanno di cosa sto parlando; dovrebbero. Ci avranno pensato almeno una volta. È così che succede. Da otto anni viviamo in questo terrore. Le scosse non sono mai finite, ogni tanto tornano ancora. E quando ne avvertiamo una, restiamo paralizzati. Si blocca il respiro poi il cervello. Dura un momento, ma in quel momento pensi il tuo pensiero. Quel tuo unico pensiero, articolato in immagini non in parole, che torna sempre ogni volta che la terra trema.
Poi corriamo sui social network: dobbiamo testimoniare di averla sentita, chiediamo ai nostri amici se pure loro l’hanno sentita, giochiamo al toto-scossa tentando di indovinare la magnitudo, attendiamo insieme il responso dal sito dell’Ingv. Se la scossa arriva di notte poi, i toni dei nostri post s’inaspriscono: minacciamo di non chiudere occhio, imprechiamo contro la bestia, malediciamo il terremoto, oppure sdrammatizziamo ferocemente. Abbiamo bisogno di esorcizzare la nostra paura, la nostra personale paura.
Mi torna in mente la scossa nella notte del 24 agosto 2016, quella che ha distrutto Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto. Per le strade dell’Aquila c’era il traffico della Vigilia di Natale. Scappavano tutti. Ricordo il turbinio irrequieto dei fari. I tanti che indossavano ancora il pigiama. Negli abitacoli c’erano volti paonazzi e occhi sbarrati, un misto di trauma di ritorno e d’illogicità preventiva. L’Aquila, pensai quella notte, è la città della paura.
Una paura, se vogliamo, comprensibile, fin troppo umana. Così radicata nel cervello da essere percepita ogni volta anche nel corpo. Forse più nel corpo. Noi aquilani siamo diventati cani di Pavlov. Sorrido. Il pensiero si disarticola di nuovo. Sfugge. Poi riaffiora, netto: eppure allo stesso tempo riusciamo a vivere tranquillamente con un altro tipo di paura. Una paura consapevole, ragionata, ma ragionata in un modo del tutto insensato, direi. Non più istintivo, non fisico.
Alzo lo sguardo e i miei occhi penetrano nell’intimità violata delle case, dove quel poco di luce arancione non arriva, non porta calore. Ancora lì. Ancora tutto fermo. Una città viva a comparti.
Il centro dell’Aquila, di giorno, pullula di sferragliamenti cantieristici, di notte si riempie di brusio mondano, di giovani. In mezzo, il nulla. Locali e qualche ristorante sono pressoché le uniche attività che hanno riaperto. I vicoli si distinguono gli uni dagli altri: i pochi tornati in vita splendono, quelli dove sono iniziati i lavori sono rivestiti da pannelli bianchi tinti di rosso per la luce dei cantieri, i vicoli abbandonati, invece, sono freddi, trasmettono una sensazione di freddo, appaiono sbiaditi, impolverati, sono malinconici, esattamente come otto anni fa. Basta svoltare un angolo per fare un salto temporale. Eppure noi aquilani li viviamo con disinvoltura, gli uni e gli altri. Per chi mette piede all’Aquila la prima volta, è inquietante, paradossale.
Mi rendo conto che ho confuso vicolo. Seppur di poco, mi tocca allungare.
Viviamo a comparti. Ci diamo appuntamento, scherziamo, parliamo, beviamo, nelle vie illuminate di presente. Parcheggiamo, pisciamo, andiamo a farci le canne, ci baciamo, scopiamo persino, in quelle buie del passato. Sulle nostre teste pendono tegole, calcinacci, vetri infranti, anche ora, e alle nostre spalle incombono bombardamenti di mura crepate, puntelli di legno marcio o di ferro arrugginito che non reggono più nulla, anche in questo momento, e noi aquilani non facciamo altro che osservare impassibili. Come se non vedessimo davvero ciò che stiamo vedendo. Come ora, come me in questo momento. Viviamo in una sorta di scaramantico disincanto, di oblio narcotizzato. L’Aquila, penso, è anche la città di quest’altro tipo di paura. Una non-paura. Una paura senza senso.
Abbasso lo sguardo fino a toccarmi la punta dei piedi.
L’Aquila voglio sperare che sia anche un po’ la città del coraggio. Dovrebbe esserlo. Coraggio folle o lucido poco importa.
Ecco la mia auto. Infilo la chiave nella portiera al primo colpo. Posso andare a casa. Almeno io posso andare a casa.
L’autore. Alessandro Chiappanuvoli (L’Aquila, 1981) è laureato in Sociologia della Multiculturalità presso l’Università di Urbino. Ha pubblicato Lacrime di poveri Christi – Terzigno: cronache dal fondo del Vesuvio (Arkhè, 2011), un reportage narrativo sullo scandalo rifiuti in Campania, la silloge di poesia golgota (Zona Editrice, 2013), Premio Laudomia Bonanni 2013, sezione autori giovani. Suoi scritti e articoli sono apparsi su: Stella d’Italia. A piedi per ricucire il Paese (Oscar Mondadori, 2013, a cura di Antonio Moresco), Alfabeta2, Il Manifesto, Il Messaggero, News Town, Effe – Periodico di altre narratività; e sui blog: Nazione Indiana, Il Primo Amore, Flanerì, Poetarum Silva, Comunità Provvisorie, Doppiozero. Da ottobre 2016 collabora con la rivista Internazionale per la quale ha scritto articoli sul terremoto del Centro Italia.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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