Amatrice. Agosto 2016. Foto di Michele Amoruso
Quello che ho scritto è il diario dei cinque mesi che hanno segnato l’Italia centrale, in un percorso che va da Amatrice fino a Rigopiano. Non è la descrizione dei fatti successi e neppure la storia personale di chi ne è stato coinvolto: i primi sono noti e l’altra è intima e inviolabile.
Maledetto Appennino è la vicenda dei vigili del fuoco, svelata attraverso le impressioni che mi hanno penetrato e raschiato con violenza l’anima e che a volte me l’hanno carezzata. Perché ho vissuto strazi, ma anche gioie sconfinate, ho toccato l’esaltazione dei colleghi quando hanno salvato vite e il dolore di quando hanno recuperato morti, ho partecipato alla felicità di chi ha visto restituirsi un affetto e alla disperazione di chi ha perso tutto. (…)
Amatrice. Agosto 2016. Foto di Michele Amoruso
La prima notte la passo sdraiandomi un po’ in macchina, come fu all’Aquila.
Ho fatto avanti e indietro per Amatrice parecchie volte da quando sono arrivato, per capire come vanno le cose e non mi piace quello che mi si muove dentro mentre butto giù il sedile.
Nelle interviste a distanza, ho ripetuto che stiamo cercando persone in vita sotto le macerie, perché il tempo trascorso autorizza a crederci. Come termine di paragone utilizzo il salvataggio della ragazza all’Aquila avvenuto dopo quarantadue ore. C’ero, ricordo come fosse adesso quell’ultimo miracolo e spero che si ripeta.
La verità che sospetto dopo aver visto, mi raspa i pensieri come carta vetrata. Le case sono state sbriciolate dal terremoto e chi manca è rimasto sommerso sotto quintali di detriti come fosse una colata di fango, niente miracolosi spazi vitali fatti da incastri di travi o colonne di cemento armato come nell’altro terremoto. Temo che le persone in vita le abbiamo recuperate e non ce ne siano altre.
Sotto il peso dei pensieri non provo neppure a dormire, a dispetto della stanchezza che mi assale. E poi fa freddo, chissà perché sono partito senza portare il sacco a pelo come se andassi al mare, stiamo quasi a mille metri d’altitudine e la notte è un particolare che si sente.
Scendo per muovermi e provare a scaldarmi facendo qualche passo, ma nonostante lo sforzo il gelo non sparisce. Mentre sto per risalire in macchina vedo appoggiati su una panchina una pila di piumoni bianchi. Sono imbustati e non hanno preso umidità, mi sembrano un miraggio fortunato.
Risalgo e mi copro, al posto di guida Giovanni Salzano russa, per nulla infastidito dal mio entrare e uscire, ma lo conosco e penso che stia con un occhio aperto.
Approfitto per ricaricare il cellulare e soprattutto le idee, il giorno che ci attende sarà duro. Toccherà prendere coscienza dell’enormità della tragedia, affrontare il dolore della gente, le lacrime, la disperazione di chi ha perso tutto.
Pescara del Tronto. Agosto 2016. Foto di Michele Amoruso
Il numero dei morti all’alba sale in fretta, evito di fare la conta quando individuiamo i corpi perché so che c’è un tarlo che buca il sistema: ognuno che soccorre si sbriga a sbandierarlo, confermando ritrovamenti e recuperi, anche se non gli compete, con il risultato di moltiplicare le cifre in modo insensato e irrispettoso.
Ricordo che per l’alluvione a Roma nel 2011, il Tevere straripò alla foce e verso l’ora di pranzo arrivò la segnalazione di un uomo trascinato dall’acqua in uno scantinato nella zona di Fiumicino. Le ricerche da parte dei nostri sommozzatori in un ambiente chiuso e pieno di oggetti furono complesse e solamente nel tardo pomeriggio riuscirono a individuare il corpo. Fino a quel momento nessuna certezza che ci fosse, peccato che qualcuno ne avesse dichiarato il decesso quattro ore prima e che per un po’ fu considerato il secondo morto.
A svolgere la funzione di coordinamento c’è la prefettura, basta far confluire i dati con serietà, assicurando attendibilità a un sistema che sui numeri sbanda. C’è qualcosa di anomalo nell’elenco dei dispersi fornito per le ricerche, non è dettagliato. Le variazioni sono continue, mancano riscontri e i nomi vanno e vengono. Nella prima fase è possibile che sia così, molte persone che non si trovano, fortuna loro, all’improvviso saltano fuori e vengono depennate, stavolta però la lista è confusa, più del solito mi pare, le indicazioni fornite a chi cerca sono approssimative, a volte contraddittorie.
Vedi il caso di un uomo considerato disperso e che cerchiamo per giorni. Nel suo locale, dove risulta che stesse a lavorare non lo troviamo e sperimentiamo tutte le ipotesi, battendo con i cani le macerie lungo le strade che potrebbe aver imboccato scappando: la direttrice fra la casa dei figli e la bottega, quella fra bottega e casa dei genitori, ma niente. Pare che per errore fosse stato spedito in un Paese dell’Est insieme al corpo di una donna, scambiato per suo marito. Storia finita, resta che i vigili del fuoco l’hanno cercato in mezzo alle scosse di terremoto, rischiando la pelle per niente.
Sarà che c’è un’incognita in più che complica le cose, stando alla voce che circola, ad Amatrice ci sarebbero molti bed & breakfast abusivi e non si può escludere che sotto le macerie ci siano persone non segnalate, un’ipotesi che gela il sangue, perché ogni cumulo si trasforma in un possibile target.
Per fortuna non sarà così.
Amatrice. Agosto 2016. Foto di Michele Amoruso
I nostri cinofili, più di trenta giunti da ogni Comando d’Italia, scendono e salgono dalle montagne di detriti lasciando che i cani annusino le tracce odorose. È quando abbaiano che si ferma tutto ed entrano in azione le squadre Usar.
L’abbaio è il segnale convenuto per indicare che hanno riconosciuto molecole umane. Perché è questo che i cani fiutano, tutti i cani, dal primo all’ultimo, quelli che hanno il pedigree e gli altri che portano dentro i geni di chissà quante razze: le molecole. Messa così la leggendaria carriera dei cani molecolari svanisce, un’invenzione forse alimentata da qualche addetto ai lavori a fini di promozione.
E comunque nei primi giorni ci stanno in giro per il cratere un’infinità di segugi che sembra di stare a un’esposizione internazionale, portati a rintracciare non si sa che cosa. Se manca un addestramento specifico per cercare fra le macerie, è come se si pretendesse di impiegare il proprio cane in aeroporto per fiutare droga o esplosivo. I nostri animali sono selezionati fra tanti, solo quelli con le idonee potenzialità passano alla fase addestrativa e solo quelli che superano le prove d’esame diventano cani da soccorso. Sul terremoto si cimentano tutti e a un certo punto dico a mia madre di mettersi una tuta colorata addosso e portare il suo Chuck.
C’è un addensamento spontaneo e incontenibile, che non dovrebbe starci, di cani ma anche di persone, con gruppi che vengono da tutta Italia e dal resto del mondo senza essere accreditati né richiesti. Si fatica a operare in quella che dovrebbe essere la zona rossa in base all’ordinanza del sindaco, a volte manca spazio per fare il nostro lavoro come da contratto.
Il dispositivo di soccorso per noi è un progetto, i numeri che mettiamo in campo sono esattamente quelli studiati. Dopo ventiquattro ore, nel cratere di quattro regioni operano mille e cinquecento vigili del fuoco, ma ce ne potrebbero essere il doppio o anche il triplo se servissero. All’Aquila, sempre in ventiquattro ore, ne arrivarono duemila e cinquecento.
Ascoli Piceno, 27 agosto 2016. I funerali per le vittime del sisma. Foto di Michele Amoruso
In una delle prime interviste telefoniche, alla domanda di cosa abbiano bisogno i vigili del fuoco, rispondo seccato di poter lavorare in pace.
Lo fanno senza sosta, per tutta la notte e all’alba li vedo bianchi di polvere e a scavare ovunque, a cercare di salvare altre vite. Peccato che la mia impressione sia giusta e dannata, nessun altro uscirà vivo da sotto le macerie dopo il primo giorno.
Alla fine le persone salvate sono duecentoquarantadue, duecentonovantanove i morti, duecentoventinove nella sola zona di Amatrice che paga il prezzo più alto al destino.
I morti.
Tanti come in Abruzzo, con una popolazione molto inferiore.
Stavolta ai funerali non ci sono andato, ad Ascoli Piceno e neppure ad Amatrice.
Me ne sono rimasto in disparte, avevo troppo in mente quelli dell’Aquila e di Giampilieri e di Viareggio, per dirne alcuni senza fare l’elenco.
Non me la sono sentita di vivere la sofferenza di chi ha perso tutto, di vedere le decine di casse allineate, specie quelle bianche che spezzano l’anima e restano dentro per sempre. (…)
Non ho potuto.
Nel giorno peggiore, mi sono messo in disparte.
(il testo qui riportato è un estratto dal libro “Maledetto Appennino” che pubblichiamo dietro cortese concessione dell’autore Luca Cari e di Castelvecchi editore)
L’autore. Luca Cari come responsabile della Comunicazione in emergenza del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, ha gestito la comunicazione dal terremoto in Abruzzo al naufragio della nave da crociera Costa Concordia, fino al terremoto nell’Italia centrale e alla slavina di Rigopiano. Ha pubblicato con Stampa Alternativa Mai più Concordia (2014), Non sono Dio (2014). Con l’inchiesta Noi pompieri nel barcone dell’orrore, pubblicata da «Panorama», ha vinto il Premio giornalistico Giustizia e verità Franco Giustolisi 2016.
Il libro. Da Amatrice a Rigopiano, il diario dei cinque mesi che hanno segnato l’Italia centrale: dal terremoto che ha distrutto i paesi tra il Lazio e le Marche, alle scosse che hanno colpito quelli dell’Umbria, alla slavina che spazzato via l’hotel sul Gran Sasso. Il libro Maledetto Appennino. Da Amatrice a Rigopiano. Cinque mesi che hanno segnato l’Italia centrale (pp. 160, euro 16,50) di Luca Cari, pubblicato da Castelvecchi editore nel 2017, non è la descrizione dei fatti successi e neppure la storia personale di chi ne è stato coinvolto. E’ la vicenda dei vigili del fuoco, svelata attraverso le impressioni che hanno pervaso l’autore. Perché ha vissuto strazi, ma anche gioie sconfinate, ha toccato l’esaltazione quando i vigili del fuoco hanno salvato vite e il dolore quando hanno recuperato morti, ha partecipato alla felicità di chi ha visto restituirsi un affetto e alla disperazione di chi ha perso tutto. Sensazioni prepotenti vissute sulla pelle, emozioni che ha scelto di raccontare senza filtri, lasciandole immutate nella loro drammaticità e durezza, e anche nell’irripetibilità dell’esaltazione di alcuni momenti.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
Per informazioni e contatti con Lo stato delle cose scrivere qui: osservatoriolostatodellecose
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