E forse la nostra benedizione più grande era di non aver mai saputo quanto sia breve il tempo. (Stephen King, Mucchio d’ossa)
È una questione di curve. Quelle delle strade, che dalle campagne dell’Appennino aprono squarci sui borghi demoliti dal terremoto. Quelle della memoria, che inganna e ti costringe a sforzarti di ricordare com’erano le cose prima. Quelle del tempo, che sembra non passare mai e poi invece ti ritrovi a fare i conti con una vita che è andata avanti malgrado tutto, anche malgrado se stessa.
Perché c’è qualcosa di nascosto, oltre i ritardi della burocrazia, le incertezze della politica, le visite istituzionali più o meno interessate. Se il terremoto fosse un romanzo, sarebbe fantascienza. Ma non quella con le astronavi e gli scontri con gli alieni, casomai quella apocalittica, del mondo dopo il mondo, le cronache del dopo-bomba, in una scenografia che sa di polvere e desolazione, con la minaccia che sembra sempre incombente eppure forse è passata.
Trecento morti. Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto. Norcia, Camerino, Visso. Una costellazione di borghi e borghetti caduti sotto il peso della propria storia. Letteralmente. Le pietre che testimoniavano quarti di nobiltà architettonica si sono rivelate le nemiche più crudeli, e quello che resta è un pugno di polvere e di sassi, una ricognizione del dolore tra case completamente abbattute ed edifici sventrati, che dalle crepe sul muro lasciano intravedere interni domestici abbandonati, la prova definitiva che da queste parti la vita c’è stata. Eppure.
Eppure stiamo parlando di un territorio che era in grave crisi economica e demografia già da prima dello sciame sismico durato mesi – e forse non ancora finito –, con tre eventi principali a fine agosto, a fine ottobre e a metà gennaio, tra il 2016 e il 2017. Eppure.
Eppure stiamo parlando di posti ai quali migliaia di persone vogliono tornare e non ci riescono, per un motivo o per l’altro. Perché la questione delle casette provvisorie è ancora molto lontana dal potersi dire conclusa. Perché la paura comunque non va via, e solo chi è sopravvissuto agli eterni secondi in cui tutto ha tremato e molto è crollato può sapere di cosa si parla. Perché in fondo c’è una consapevolezza crudele negli sguardi del popolo dell’Appennino: la natura ha fatto capire che non tutti i luoghi sono adatti ad accogliere la vita umana, e se la botta è passata, in futuro una cosa del genere potrebbe accadere ai propri figli o ai propri nipoti. Eppure.
Eppure gli esseri umani sono creature resistenti, e il vero scontro non è tra la forza inarrestabile della natura e l’irremovibilità degli uomini, ma tra la paura di non farcela e la speranza di rinascere. La vera partita non è tra la terra e i suoi abitanti, ma contro se stessi e le proprie abitudini. Un anno dopo il terremoto che ha cambiato per sempre la storia e la geografia dell’Appennino tra le Marche, l’Umbria, il Lazio e l’Abruzzo, l’eterno conflitto non ha ancora una soluzione possibile.
Si resiste, tutto qui. Cioè, «tutto qui», e le virgolette devono essere belle grosse: perché non si resiste a qualcuno o a qualcosa, ma a un dato di fatto. Quando la terra trema e le case crollano non c’è qualcuno con cui prendersela, né santi a cui votarsi. Semplicemente tutto va giù, poi ritorna su, poi si spacca, si torce, crolla. Kurt Vonnegut sosteneva che non c’è niente di intelligente da dire su un disastro. Poi il tempo passa, cambiano le stagioni, si girano i fogli del calendario e in men che non si dica ci si rende conto che è passato un anno. C’è chi ha perso un padre, una madre, un figlio, un amico. C’è chi ha perso il tetto sopra la propria testa, il lavoro, il senso, la direzione. Nessuno ha per ora perso la speranza, anche se tutto è improbabile, anche se le circostanze non sono favorevoli.
La sconfitta però è sempre dietro una curva: le cronache degli ultimi mesi riportano tantissimi casi di decessi per cause naturali tra gli sfollati. A volte a non reggere è il cuore, che si ferma e non lascia scampo. In un modo o nell’altro stiamo ancora parlando di vittime del sisma: non si muore soltanto travolti dalle macerie. Chi resta ha imparato a dare nuove sfumature al motto «aspetta e spera». Aspetta che la terra smetta di tremare, e spera di finire travolto. Aspetta che finiscano di costruire le casette, e spera che gli inverni là dentro passino velocemente. Aspetta che qualcuno si decida a dare lumi sulla ricostruzione, e spera che questa ci sarà davvero.
Un anno esatto dopo il terremoto, Pescara del Tronto è stata cancellata dalle mappe. Si sapeva: è franata persino la collina lì, non c’è proprio modo di rimettere in piedi il paese. La comunicazione ufficiale però è stata un colpo di grazia: quello che prima era un fondatissimo sospetto è diventato una cupa realtà. E questo è solo il primo caso del genere, perché con il passare dei mesi altri borghi saranno dichiarati impossibili da ricostruire. E qui la memoria fa una curva a gomito, di quelle che cancellano il paesaggio. Si rinascerà, certo, ma altrove. E per quanto ci si possa sforzare di essere ottimisti, siamo davanti a un fatto che scavalca una storia secolare, che stravolge quello che veniva considerato un dato di fatto come l’ubicazione di un paese, che traccia una linea sopra l’errore, va a capo e prova a ricominciare. Ecco, ricominciare.
Si ricomincerà mai davvero? In giro c’è chi parla di «strategia dell’abbandono», di volontà politica di lasciare che le cose accadano. Anzi, che le cose non accadono. Un anno lontani da casa è un tempo eterno, alle abitudini di un tempo subentrano nuovi stili di vita. Più precari, più incerti, più tortuosi. Ma nuovi. E cambiare è sempre così difficile. Migliaia di persone sono state trasferite negli alberghi della costa adriatica, e per un montanaro finire in riva al mare non è una cosa semplicissima da concepire.
C’è chi non l’aveva visto mai, il mare. C’è chi non lo vedeva da decenni. Chi non è interessato. Poi si affaccia dal balcone della propria stanza d’albergo e vede quella tavola più verde che blu davanti agli occhi: la prospettiva in linea con l’orizzonte non ricorda nemmeno da lontano la montagna che si arrampica sul cielo. C’è chi tende a derubricare questi discorsi nella categoria delle cazzate di cui si può fare a meno, nel momento dell’emergenza. Si può anche essere d’accordo – primum vivere, deinde philosophari –, ma quando dura questo momento dell’emergenza? Formalmente fino a febbraio. Un po’ troppo, forse ci stiamo abituando a vivere con un’incudine che ci pende sopra la testa, forse qualcuno tra chi comanda tende a chiamare «emergenza» quella che è solo la propria indolenza.
In questo anno, i terremotati hanno imparato un sacco di parole nuove. I lemmi della burocrazia: Sae, Cni, Dpc, Aedes, Fast. Perché chi si è trovato a fronteggiare la catastrofe, come prima cosa ha pensato a tutelare se stesso, memore dei tanti disastri giudiziari usciti fuori dalla gestione di tante calamità naturale avvenute sul suolo italico. Come si fa? Producendo pacchi di leggi sulla trasparenza, inventandosi procedure macchinosissime, contratti, codici, leggi anticorruzione. Il risultato è che sicuramente – cioè, a quanto ne sappiamo – fin qui il sisma del Centro Italia non ha fatto registrare infiltrazioni mafiose o criminali, ma in compenso tutto quanto è andato a estremo rilento. Persino le macerie sono ancora quasi tutte lì dove le ha lasciate il terremoto.
Deve esserci una via di mezzo tra una gestione accentratrice e paramafiosa, e l’onestissimo, trasparentissimo immobilismo. Nessuno si assume le proprie responsabilità, però, e chi tutta questa situazione la subisce non sa mai se deve rivolgersi al governo, alla protezione civile, al commissario per la ricostruzione, alle regioni, al comune o a Sant’Emidio, il patrono ascolano protettore contro il terremoto. E raccontare questo terremoto è altrettanto complicato. Molte cose non si muovono perché non si sa come dirle.
Emergono storie più o meno minime, commoventi, stucchevoli, meritevoli di indignazione. Casi singoli di persone straordinarie o straordinariamente sfortunate. Si fa fatica a inquadrare la questione in un contesto di ordine generale. Il territorio, d’altra parte, è immenso, i paesi colpiti sono centinaia, le persone coinvolte decine di migliaia, i collegamenti sono strade di montagna – ancora le curve che tornano – e ancora frazioni, case isolate, pascoli, fabbrichette, edifici abbandonati, già cadenti da anni, paradisi naturali spopolati, alberi, sentieri. Tutto è troppo ameno per poter essere reale, anche a guardare le foto, i contorni sembrano sempre disegnati, non hanno quasi mai l’impatto di una scena a cui si può assistere davvero.
È come se certi luoghi non esistessero, nell’immaginario collettivo. E d’altra parte questo terremoto non ha neppure un nome proprio, se non un generico «Centro Italia». Non c’è il centro storico di L’Aquila da ricostruire, non ci sono le aziende dell’Emilia da salvare, non c’è nemmeno un nome leggendario come Casamicciola da tutelare. Qui ci sono solo case vecchie, dei nonni, delle vacanze. E la gente? Parla in dialetto, in televisione non si capisce mai niente dei loro discorsi. Sono contadini,agricoltori, allevatori, falegnami, cacciatori. Persone che possono solo indossare la propria dignità quando le cose si mettono male.
È tutto tremendamente difficile. Appunto, emergono solo le singole storie, che però troppo in fretta diventano da cronaca, oggetto della speculazione di questo o di quel politico, e le cose andranno sempre peggio adesso che si avvicina una delle campagne elettorali più nauseabonde della storia repubblicana. Eppure.
Eppure le persone resistono. A tutto. C’è un tratto di eroismo nella vicenda di un popolo intero che è stato cacciato di casa dal terremoto e che adesso lotta con tutte le proprie forze per poter tornare a casa. L’apnea della distanza, «la mancanza che è un assedio», la terra che trema, la natura che travolge, la burocrazia che avvolge, le parole parole parole, il lutto e lo sconforto. Soli contro tutti, qui nessuno ha intenzione di mollare. Perché oltre le curve la direzione è sempre la stessa. Una casa a cui tornare.
L’autore. Mario Di Vito, classe 1989, giornalista. Scrive per il Manifesto. Nel 2016 è uscito il suo primo romanzo Il male minore (Edizioni Ae).
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