Non hanno più sorrisi né lacrime da proteggere i cancelli di troppi borghi del Centro Italia. Dopo i terremoti di questi anni gli abitanti sono andati via: alcuni per sempre, altri si sono trasferiti solo di qualche chilometro e solo temporaneamente. Condannati a un’attesa indefinita, i paesi si sono svuotati. Macerie e zone rosse dominano le strade, chilometri di recinzioni metalliche le circondano da talmente tanto tempo da aver perso significato. Sono cancelli del silenzio. Custodiscono il ricordo e la desolazione di un Appennino dimenticato.
È la vita di tante frazioni dell’Aquila e altrettanti paesi negli immediati dintorni, decine di nuove Pompei apparse dopo il terremoto del 2009 e poi dopo le scosse del 2016 e del 2017. Sono borghi senza più tempo né vita, paesi di porte spalancate perché non serve più chiuderle, monumenti alla cronica incapacità italiana di ricostruire. È una nuova geografia del Centro Italia disegnata dalle scosse e dalle inefficienze, un deserto urbano in lento abbandono, un costante scivolamento della popolazione verso i centri lungo la costa.
Castelnuovo si trova a una ventina di chilometri dall’Aquila. E’ una frazione del comune di San Pio delle Camere ma è una distinzione di poco conto: divide con tutti borghi della zona lo stesso destino di distruzione. Per raggiungerla si percorre la statale 17 e poi una breve strada secondaria attraverso il nuovo insediamento di Map, i Moduli abitativi provvisori divenuti da anni una stabile sistemazione per almeno duecento persone. Nessuno di loro ha dimenticato le antiche case: le aspettano con rassegnazione, guardiani della speranza a pochi metri dalle vite di un tempo.
L’antico borgo è davvero a un passo. Un cancello, un lucchetto e una rete metallica lo sigillano ma non lo proteggono, non lo nascondono, non lo custodiscono.
Hanno sempre avuto una difesa i paesi dell’Appennino: muri di cinta, portoni, ponti levatoi, fossati. Vegliavano su vite, storia e futuro del borgo, ne impedivano la vista al mondo esterno. Le mura potevano rotolare giù durante ogni terremoto, dopo ogni terremoto venivano ricostruite, una tela di Penelope di pietre e travi.
Onna (L’Aquila), dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
Le antiche protezioni nulla potevano contro le scosse più forti ma erano davvero impenetrabili per le persone non gradite. La moderna recinzione non è molto più di un blando avvertimento. Si percorre qualche passo, si sale su qualche roccia e si salta dentro il borgo, fuori dal tempo. Non esistono più orologi né vita. Le strade non sono solo vuote, sono lasciate andare come un vestito smesso. Sull’asfalto non si vedono automobili ma nemmeno segnali stradali o cassonetti. Nell’aria non si sente un rumore di una palla che rimbalza su un muro né di un bambino che piange. Si cammina fra usci socchiusi, mobili e credenze ancora piene. Sul pavimento sono sparsi i libri che nessuno ha più letto, sui fornelli attendono le pentole dove nessuno ha più cucinato. A una parete è appoggiato un tavolo da stiro dove nessuno ha più steso una camicia, su un gradino sono abbandonati gli addobbi di Natale che nessuno ha più appeso a un albero.
E’ un paese nudo, dove la devastazione è sotto gli occhi di chiunque. E’ il mondo del 2009 sopravvissuto a un terremoto e dieci anni di nulla, un Appennino dove la tela di Penelope della ricostruzione si è bloccata. E’ la terra dove il principio del dov’era/com’era, il grande desiderio di chi era alla ricerca della ricostruzione perfetta nell’illusione di ritrovare quello che era irrimediabilmente perduto. Dietro i cancelli del silenzio tutto è ‘dov’era/com’era’. Manca la ricostruzione.
“Che cosa ci ha frenati? La burocrazia. – spiega Pio Feneziani, sindaco di San Pio delle Camere – All’inizio abbiamo dovuto occuparci dello smaltimento delle macerie. Si sono persi almeno un paio di anni tra convenzioni e procedure di vario tipo. I lavori veri e propri di carico e rimozione hanno preso almeno un altro anno. Da quel momento in poi abbiamo dovuto aspettare per colpa dei rischi idrogeologici. E’ stato realizzato uno studio del sottosuolo, sono state individuate delle cave ipogee. Alla fine si è deciso di tombarle con una malta simile al terreno circostante. Tutto questo ha richiesto altro tempo ma ora le macerie sono rimaste solo sulla parte più alta e abbiamo completato l’iter per due progetti: sono in attesa del finanziamento e stiamo immaginando il futuro. Speriamo che i tecnici progettino un bel borgo, si dovrebbero mantenere gli stessi volumi e recuperare i materiali lapidei che verranno inseriti nei nuovi edifici. Vorremmo che la nuova Castelnuovo fosse appetibile anche da chi non è della zona. Spero che tutto questo avvenga presto ma i tempi effettivi non dipendono da me. La competenza spetta ai tecnici e agli enti che hanno il compito di visionare i progetti. Siamo ottimisti, però: si sta andando avanti”.
Onna (L’Aquila), dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
A Onna non ci sono lucchetti, solo molte reti e zone rosse intervallate da aree libere, lì dove le ruspe hanno eliminato macerie e ricordi. Spruzzi di case ancora da demolire con il loro corredo di pentole e mobili abbandonati si alternano a radure innaturalmente vuote. Difficile riconoscere il vecchio paese dove morirono quaranta persone, ancora prematuro immaginare il nuovo. Una strada segna il confine e una cabina telefonica lo presidia, muta testimone di un passato immerso in un presente lontano dal futuro. L’hanno lasciata accanto alla nuovissima Casa della Cultura dopo averla spostata durante i lavori per liberare la piazza principale dalle macerie. Con i suoi vetri sfondati e le erbacce cresciute sul pavimento non ha più un motivo né una scadenza.
E’ spesso così in questa terra dominata dall’ignoto, dalle incertezze e da un lento silenzio. Durante i giorni feriali in lontananza si sente lo stridio delle gru. La prima casa ricostruita è stata consegnata alla fine del 2017, otto anni dopo il terremoto e altri lavori sono lentamente in corso. Ma nei fine settimana il vento si aggira indisturbato tra le ultime macerie. Erano i giorni delle partite a pallone in strada, dei ragazzini che si rincorrevano urlando in bicicletta e delle donne sull’uscio delle case. Prima o poi torneranno nel borgo. Troveranno nuovo cemento dov’era e com’era ma dopo tanti anni chi ricorda più dov’era davvero? E com’era?
Roio Piano (L’Aquila), dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
A Roio Piano la signora Margherita, 67 anni, e la cugina Maria Cristina hanno smesso di chiederselo, dov’era e com’era. Sono le uniche abitanti rimaste dei 400 circa che popolavano il paese. E’ una delle frazioni dell’Aquila e l’epicentro del terremoto del 2009. Ci fu un morto, le case crollarono una sull’altra, le persone fuggirono e iniziò anche qui l’epoca delle zone rosse e delle recinzioni. Un varco si aprì due anni dopo il sisma: le case delle due signore non avevano subito danni gravi, bastarono pochi lavori per farle rientrare. Nient’altro è successo. «Quando esco vedo case vuote, muri che stanno cedendo, oggetti lasciati dieci anni fa e mai più ripresi», racconta la signora Margherita. Ogni giorno le due cugine si fanno coraggio e vanno avanti come possono: finestre e porte sbarrate non appena cala il buio, per uscire di nuovo aspettano il mattino successivo, per parlare con qualcuno devono sperare nel telefono o aspettare che i figli arrivino a prenderle. “Ma quello che era non esiste più e non so se riusciremo mai a viverlo di nuovo – racconta Massimo Piunti, artista. “Mi ero trasferito a Roio Piano nel 2000. Era il posto di cui avevo bisogno con la sua atmosfera isolata, la sua bellezza. Era un paese incantato. C’era il forno comune, c’erano gli anziani con i loro racconti, le tradizioni, una vita rigidissima eppure tutti erano in ottima salute”.
Poi sono iniziate le scosse. Mesi interi a convivere con la terra che trema. “Eravamo preparati, ce l’aspettavamo tutti – ammette Massimo Piunti – Dormivamo fuori casa”. Massimo si è salvato, e così la sua famiglia e tante altre del piccolo paese incantato. Non erano preparati a quello che sarebbe arrivato dopo, la vita nei Map, la perdita delle tradizioni, dei vicini, della piazza dove andare, delle galline e dell’orto dietro casa a cui badare. “Gli anziani di un tempo che mi sembravano fortissimi si sono ammalati, molti non ci sono più. Sono scomparsi portandosi via la memoria e la storia di questo angolo di mondo. Li ho visti cadere come birilli. Uno dietro l’altro”.
Massimo Piunti e Silvia Di Gregorio. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
La rete si supera facilmente anche a Tempéra. Borgo longobardo, abitato da oltre quaranta famiglie nell’Alto Medioevo quando anche a Firenze non si viveva poi molto meglio. Ricco, tranquillo, chiese, palazzi nobiliari, un prezioso ruscello che favorì il fiorire di mulini, cartiere, ramerie. Il terremoto del 1703 arrivò a distruggerlo ma in quell’epoca si faceva in fretta a rimettere in piedi case e chiese. In pochi anni Tempéra fu ricostruita, diventò un centro industriale moderno dove l’economia girava insieme con le pale dei suoi mulini e del terremoto quasi non esisteva traccia. Quando la notte del 6 aprile del 2009 si scatenò un nuovo sisma devastante, in paese vivevano circa 900 persone e l’economia non girava più come un tempo. Morirono in otto. “Noi siamo sopravvissuti ma il terremoto non ti lascia più. In questi dieci anni ci ha accompagnati il rombo assordante delle scosse, il fragore delle case che crollano, e poi l’odore acre della polvere, il terrore e la consapevolezza di essere vivi. Non dimenticheremo nulla”, racconta Giustino Masciocco, oggi consigliere comunale di opposizione dell’Aquila ma in quegli anni assessore e uno degli abitanti del borgo.
C’è ancora polvere nelle case di Tempéra. E’ un sottile strato grigio marrone. Copre le sedie, le credenze, le porte, le riviste. I bambini sono andati tutti via come nel villaggio di Hamelin dopo il passaggio del pifferaio. Hanno portato lontano risate, lacrime e i suoni di un luogo abitato. Non hanno potuto portare via l’ultima voce di Tempéra, lo scorrere delle acque del fiume Vera. “E’ quello che rende questo paese diverso da ogni altro borgo della zona”, racconta Giustino Masciocco. “Il rumore dell’acqua non ci ha abbandonati nemmeno nei giorni immediatamente seguenti al terremoto. Tutt’intorno c’era un silenzio spettrale. Da noi si sentiva il fiume che non ci faceva sentire soli”. Le acque scorrono rapide anche dopo dieci anni. E non è più l’unico suono. C’è il fischio delle gru, i primi lavori sono partiti. “Entro quattro-cinque anni torneremo a popolare il borgo”, promette Giustino Masciocco. Se l’avesse annunciato nei giorni immediatamente successivi al terremoto i suoi concittadini lo avrebbero coperto di insulti. Ora che di anni ne sono passati dieci pensare che ne manchino ancora la metà per alcuni può sembrare persino una prospettiva consolante.
La ricostruzione di Tempéra è una storia a parte. “Da noi i progetti sono rimasti fermi a lungo ma ora viaggiamo più veloci di altri – spiega Giustino Masciocco – Ho spinto perché si realizzasse non un piano di ricostruzione ma un piano di recupero urbano. E’ come se avessimo raddoppiato il lavoro. Questo in parte giustifica i ritardi, ora però abbiamo regole che ci permettono di avere tempi più rapidi e un futuro borgo dove la qualità della vita dovrebbe migliorare”. Non si è seguito l’imperativo del ricostruire ‘dov’era/ com’era’ ma si è scelto di sfruttare l’occasione per migliorare la struttura: alcune strade saranno allargate, alcune abitazioni avranno una sagoma diversa, ci sarà maggiore un senso di maggiore spazio. Ci sarà: nonostante abbia seguito percorsi diversi, anche per Tempéra i verbi restano coniugati obbligatoriamente al futuro.
Paganica (L’Aquila), dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
Paganica è una delle frazioni con il maggior numero di gru e camion di materiali per costruzioni in giro. E’ anche la più grande e popolata, la più autonoma, la più ottimista sul futuro. E’ costruita intorno a un colle come un’acropoli dove salire con lentezza medievale. Si parcheggia nella parte bassa e si inizia a camminare per vicoli. Cantieri, seghe elettriche, un’atmosfera di polvere e speranze non troppo diversa da quella di questi ultimi anni nelle strade del centro dell’Aquila. A metà del cammino i segni del nuovo vigore edilizio scompaiono, si procede in un paesaggio sempre più spento e diroccato. Si passa accanto a porte aperte, pareti crepate, libri rovesciati, mobili vandalizzati, luminarie che in dieci anni nessuno ha mai rimosso, l’usuale eredità di un lungo abbandono.
Ogni vicolo ha la sua recinzione, ogni passaggio la sua rete di plastica rossa dei cantieri pubblici. E’ soltanto un’indicazione di status, un confine necessario per delimitare le responsabilità: da tempo non bloccano qualcosa o qualcuno. Anzi. Gli abitanti di Paganica stanno tornando nelle loro strade, hanno ripreso a viverle. Nulla è più come un tempo. I forni comuni sono spenti, le botteghe ancora sommerse dalle macerie, le cantine serrate con i lucchetti. “Noi stessi siamo tutti invecchiati e ingrassati”, sorride Germana Rossi, musicista. “Ma almeno abbiamo ripreso l’abitudine di tornare a camminare nel paese. Durante i fine settimana ci ritroviamo tutti qui, i più anziani e i meno anziani. A volte sentiamo il bisogno di una scusa come il dover controllare casa, ma sempre più spesso saliamo soltanto per il piacere di camminare nelle nostre strade anche se la ricostruzione ancora è lontana”, racconta.
Paganica (L’Aquila), dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
Quanti sono i paesi spenti e i cancelli del silenzio del Centro Italia? Troppi. Decine di frazioni dell’Aquila ma anche tanti borghi del Centro Italia devastati dai terremoti del 2016 e del 2017. Non è la prima volta che accade. Se dall’Aquila si prosegue verso Scanno, in cima al monte Rava si vede un insieme di case. E’ il borgo di Frattura Vecchia, distrutto dopo il terremoto del 1915. Una new town fu creata a pochi metri di distanza, il vecchio borgo rimase abbandonato: mai demolito, mai ripopolato. A centotré anni dal terremoto è sempre lì. Come in un piccolo museo spontaneo della vita delle campagne abruzzesi di un secolo fa, si può entrare nelle antiche case, osservare gli spazi, i resti di arredi. Nessuno reclama più nulla: spesso gli eredi sono tanti, vivono lontano, non hanno più motivi per tornare a Frattura. Una società immobiliare sta acquistando, c’è un progetto, qualche casa è stata rimessa a posto, forse in futuro il borgo ritroverà una vita. Forse. In futuro. Ma il futuro esiste soltanto se il presente lo consente, e il presente dei borghi colpiti dalle scosse degli ultimi dieci anni è pesantemente compromesso da un sistema di regole lento, pesante, inefficace, capace di mettere d’accordo pure acerrimi avversari politici.
“Che cosa non ha funzionato? Ci fu una scelta politica – ricorda Carla Cimoroni, consigliere comunale di opposizione – Quando si programmò la ricostruzione si decise di far partire innanzitutto il centro e l’immediata periferia e successivamente le altre zone. Non fu prevista alcuna garanzia per gli abitanti delle prime case che incredibilmente avranno tempi più lunghi di molti proprietari di seconde case. Oggi nel centro dell’Aquila di sicuro si respira un’atmosfera di fermento: molti palazzi storici sono stati recuperati anche se ancora non sono abitati perché manca l’allaccio delle utenze e ci sono tante proprietà in vendita. Nelle frazioni, invece, gli abitanti sono disperati. In alcune frazioni non solo non si vede la fine ma nemmeno l’inizio della ricostruzione. Si sapeva che l’attesa sarebbe stata lunga ma si sperava almeno di avere tempi certi. Invece ancora adesso, dopo dieci anni, nessuno sa fornire un orizzonte preciso e in tanti si chiedono se valga la pena aspettare o andare altrove”.
Paganica (L’Aquila), dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
Valentina Valleriani è ingegnere, precaria e da dieci anni lontana dalla sua casa. Lavora nell’Ufficio ricostruzione dell’Aquila: di questo terremoto e delle sue macchinosità ha visto tutto, delle regole è vittima e esecutrice allo stesso tempo. “Paghiamo il prezzo delle scelte del passato quando si decise di concentrarsi su alcune frazioni abbandonando totalmente le altre senza dare la precedenza a chi ha perso la prima casa, ovunque fosse. La conseguenza è che a dieci anni di distanza nelle frazioni ancora non è partito nulla e in tanti sono ancora senza un tetto. La mia casa è nella frazione di Sassa, speriamo di poterci tornare fra due tre anni, ma chi lo sa?”.
Nessuno. Nemmeno il sindaco attuale e l’ex sindaco.
Paganica (L’Aquila), dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
Massimo Cialente ha guidato L’Aquila per dieci lunghi anni, dal 2007 al 2017, gli anni più difficili, quelli in cui furono prese le decisioni che oggi condizionano la ricostruzione. «Le frazioni si sono auto abbandonate – racconta- i progettisti insieme alle imprese della zona hanno fatto cartello, si sono riempiti di progetti ma non hanno avuto le forze per presentarli. E poi bisogna ricordare che ci sono appartamenti con 16 proprietari, magari molti sono all’estero: non si troveranno mai d’accordo. Ci sono quelli che non hanno mai accatastato la proprietà. E poi abbiamo assistito a un assalto alla diligenza da cui non è stato facile difendersi. In questi anni abbiamo visto imprese che arrivavano da tutt’Italia, ottenevano le commesse, utilizzavano il denaro per pagare i loro debiti, poi dichiaravano fallimento e bloccavano la ricostruzione. Avevo chiesto regole diverse ma nessuno dei vari governi che si sono succeduti ha voluto ascoltarmi. Non hanno dato personale a sufficienza e non hanno mai approvato una legge quadro sulla ricostruzione. Abbiamo un terremoto ogni 5 anni, ogni volta è la prima volta: è questo che crea tutti i problemi successivi. Nei comuni della valle dell’Aterno si sono persi mesi e mesi solo per capire se applicare le leggi del terremoto del 2009 o quelle del 2016. Se ci fosse stata una legge quadro non si sarebbe perso tempo».
Pierluigi Biondi è sindaco dell’Aquila dal 2017. Ha ereditato una situazione complessa ma assicura di aver impresso la svolta necessaria: “Solo dei faciloni potevano pensare che una città importante come la nostra potesse essere ricostruita in cinque anni. Stiamo cercando di rivedere il cronoprogramma invertendo le priorità e imprimendo un’accelerazione per i proprietari di prime case. Abbiamo problemi per la mancanza di personale ma stiamo procedendo più rapidamente che in passato. Che cosa non ha funzionato? Manca una legge quadro per la ricostruzione, ad ogni terremoto si ricomincia da capo e ogni volta si raccomandano: ‘Non facciamo come all’Aquila, eh!’ Ed è davvero così: purtroppo per loro!”.
E’ quello che pensa la gran parte del popolo di Lazio, Marche e Umbria finito nelle Sae, le strutture di emergenza che già dopo pochi mesi si è trovato ad avere a che fare con problemi enormi di muffa alle pareti o nei pavimenti, scaldabagni montati in modo inadeguato e altri disagi diffusi in percentuali imbarazzanti. L’Aquila, nonostante tutto, in qualche modo ha funzionato. Se hanno trovato un tetto gli abitanti dell’Abruzzo colpito dal terremoto del 18 gennaio del 2017 è soltanto grazie ai Map che erano lì dal 2009 e dopo tanti anni reggono ancora bene. Nessuno se la sente di garantire che fra otto anni si potrà dire altrettanto delle Sae. Nessuno se la sente di immaginare come sarà la vita di chi oggi le abita né quanti altri cancelli del silenzio dovrà subire l’Italia.
L’Aquila, dicembre 2018. Fotografia di Giuseppe Carotenuto
L’autrice. Flavia Amabile è giornalista del quotidiano La Stampa. Scrive di attualità. Ha seguito le vicende legate a diversi terremoti italiani, a partire da quello dell’Umbria del 1997
Il fotografo. Giuseppe Carotenuto è nato a Pompei nel 1984 ed è fotogiornalista freelance. I suoi reportage vengono pubblicati dalle maggiori riviste italiane e straniere come Vanity Fair, L’Espresso, Panorama, Le Monde e Stern. Il 24 Agosto 2016, è stato uno dei primi fotografi ad arrivare ad Amatrice e le sue foto, oltre ad essere pubblicate da L’Espresso, sono state scelte da Time Magazine.
* una versione di questo video è apparsa sull'edizione online del quotidiano "La Stampa"
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