Impetuoso, logorroico per sua stessa ammissione, Massimo Cialente è quello che nei momenti caldi della ricostruzione post terremoto minacciava «io mi dò fuoco per l’Aquila», prometteva scioperi della fame e si commuoveva al microfono; considerato un nemico dal centrodestra e un collaborazionista dalla sinistra, ha dismesso la fascia da sindaco quasi quanto la cravatta, per poi vedersela restituire ogni volta a furor di popolo; pronto a mettersi contro tutti per la sua città, da Berlusconi a Letta, ha litigato con i giornali che non gli rendevano giustizia e si è addormentato in diretta durante una trasmissione di Santoro, quando tutti gli chiedevano un parere e lui non riusciva a chiudere occhio; è stato indagato, maledetto, ringraziato; fotografato mentre spinge una carriola piena di macerie e ripreso con una webcam mentre viene intervistato, sul filo dell’ironia, pedalando per il centro su una improbabile bici reclinata.
Lui di sé dice che è un “diacono”, un semplice funzionario del Pd che si è trovato a rispondere di ciò che gli è capitato. Pneumologo di professione, politico per scelta e passione, è stato sindaco dell’Aquila dal 2007 al 2017; eletto nel 2007 al primo turno con il 53% dei voti, nel 2012 ha vinto le primarie del centrosinistra con il 71% dei consensi, aggiudicandosi poi le comunali al ballottaggio.
La sua è l’ultima casa in fondo alla strada, fra palazzi ricostruiti e ancora poco abitati, dove i numeri civici si susseguono in modo irregolare. Un cane pastore lo precede mentre ci introduce in una sala inondata dal sole, i libri sulle pareti disposti con cura e in ordine di altezza («non trovo mai quello che cerco, mia moglie è metodica e me li sposta»), in cui presto si troverà anche uno spazio per il suo, fresco di stampa e firmato con la giornalista Antonella Calcagni; uscirà per Castelvecchi, in tempo per il decennale del terremoto. Titolo: L’Aquila 2009, una lezione mancata.
Massimo Cialente, ex sindaco a L’Aquila. Gennaio 2019. Fotografia di Stefano Stranges
«Il libro l’ho fatto per dire che questo Paese è una follia. A cominciare dal decennale: sono stati stanziati un milione e seicentomila euro per le celebrazioni, una cifra esagerata, ci organizzi il Festival di Sanremo con quei soldi. In ogni caso mi sta bene se diventa una riflessione su quello che è successo e, soprattutto, su quello che si può fare oggi ad Amatrice o a Teramo per quelli che sono ancora in mezzo a una strada. Perché i sindaci dei paesi distrutti dal terremoto del 2016 e del 2017 stanno dicendo le stesse cose che dicevo io: siamo abbandonati, non abbiamo una lira».
«In Italia ogni volta è la prima volta, non impariamo niente», chiarisce subito Cialente. È un concetto che ripeterà spesso durante le quasi due ore di intervista, in cui i ricordi terranno il passo con le sigarette. Uno pneumologo che respira in una nuvola di fumo mentre racconta e si sfoga, sempre al presente, perché se sei sindaco di una città che ha subìto un terremoto devastante, come è successo all’Aquila, continui ad esserlo anche dopo aver ceduto la poltrona da primo cittadino, come in un sogno ricorrente che non ti lascia dormire tranquillo.
«Tutte le norme sono fatte in modo che alla fine, comunque vada, il responsabile è sempre il sindaco. Una legge stabilisce che i comuni devono misurare la sicurezza sismica di tutti gli edifici pubblici, quindi anche i cinema, i supermercati e le scuole; ma dice anche che non hai l’obbligo di intervenire. Quindi se io scopro, come è successo alla scuola Cotugno all’Aquila, che l’edificio ha un indice di sicurezza 0,25 che faccio, la chiudo? Se viene una scossa e cede, chi finisce in galera? Il sindaco. A San Giuliano di Puglia il sindaco ha perso la figlia nel crollo dell’edificio scolastico e l’hanno condannato. Marta Vincenzi a Genova si è presa cinque anni per non avere chiuso la scuola. Un capro espiatorio c’è sempre: è il sindaco».
Mandati al fronte, senza addestramento e senza l’equipaggiamento adatto. «Siamo completamente impreparati. Sulla ricostruzione non ci sono regole, manca la definizione di emergenza e non sai nemmeno quando dall’emergenza passi alla post emergenza e poi come la gestisci, la post emergenza. Con il terremoto del 18 gennaio 2017, nella zona di Montereale e dell’Alto Aterno abbiamo avuto danni importanti: questi comuni erano già stati colpiti dal sisma del 2009 ma uno dei problemi più grossi su cui hanno discusso per mesi è stato quale legge applicare per ricostruire, se la vecchia o la nuova. Perché ogni volta cambia la legge. Possibile che dopo tutti questi anni ancora non abbiamo stabilito quali sono le best practice?».
Scuola Mazzini. L’Aquila, gennaio 2019. Fotografia di Stefano Stranges
«All’Aquila non sono riuscito a riaprire una sola scuola perché affrontare gli appalti pubblici e la burocrazia è impossibile. Io ho nel centro storico l’asse centrale rifatto ma tutti gli edifici pubblici, a partire dalla caserma dei vigili del fuoco – gli angeli del terremoto! –, non ripartono. La scuola De Amicis, per fare un esempio, ha ancora i tubi innocenti a tenerla in piedi: è stata cinque anni fra ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, poi il Consiglio di Stato ha decretato che non è competenza sua e ora è la causa è al tribunale civile. Fare un appalto in Italia è impossibile perché per la questione della corruzione abbiamo creato una tale ragnatela di impedimenti che il sistema non funziona; e dire che gran parte di queste opere sono destinate alla messa in sicurezza del Paese. Io prima di essere sindaco ho fatto il deputato e queste cose non le sapevo; se vuoi andare in Parlamento prima dovresti essere eletto in Comune perché solo allora capisci di cosa ha bisogno l’Italia, perché solo noi sindaci siamo in prima linea e vediamo le contraddizioni del Paese».
Prende il pacchetto, sfila un’altra sigaretta: «Io lasciai la Camera per fare il piano strategico che ha salvato la città. Quando fai politica devi avere un puzzle in testa e quando amministri ogni volta devi decidere se quella che hai in mano è la tessera giusta per il tuo puzzle. L’Aquila era già una realtà di provincia, sonnecchiante, aveva perso ogni impulso e in più usciva da una crisi gravissima dopo la fine dell’Italtel, il colosso della telefonia. Così nel 2006 scrissi un progetto per l’Aquila, poi nel 2007 vinsi le elezioni e quel piano l’ho portato avanti anche dopo il terremoto».
Uno sconvolgimento che ha cambiato tutto e nello stesso tempo ha cristallizzato la realtà in un immobilismo che sembra ripetersi sempre uguale, ogni volta che la terra trema. Cialente non si dà pace: «Non abbiamo imparato niente perché dopo l’Aquila c’è stato il 2012 in Emilia, il 2016 ad Amatrice, il 2017 a Campotosto e l’unica cosa che sappiamo è che i terremoti sono eventi naturali periodici, non si scappa; il più delle volte hanno una latenza più o meno individuata e all’Aquila si tratta di trecento anni. L’Italia si muove lentamente verso l’Albania e in questo spostarsi ogni tanto si apre e casca un pezzo; è la nostra storia. Abbiamo intere regioni in cui la terra tremerà di nuovo ma aspettiamo senza fare niente. Non è un caso che la nostra Protezione Civile sia la migliore del mondo: è organizzata e soprattutto ha centinaia di associazioni di volontariato con grandissima professionalità. Ma perché abbiamo sviluppato così tanto i pompieri? Perché appicchiamo sempre il fuoco».
L’Aquila, gennaio 2019. Fotografia di Stefano Stranges
L’ex sindaco trova conferma delle sue convinzioni nei libri di storia: dopo i terremoti del 1461 e del 1703 che distrussero l’Aquila, gli edifici furono ricostruiti con criteri antisismici ma dopo l’unità d’Italia il discorso della prevenzione sembra essere passato completamente in secondo piano: non a caso, all’Aquila come ad Amatrice, a fare più vittime sono stati i palazzi degli anni Sessanta o Settanta. «I morti all’Aquila io li ho avuti sul cemento armato», conferma Cialente. «A parte la frazione di Onna, rasa al suolo a causa dell’edilizia minore, sono stati soprattutto i palazzi del centro a cedere. Ma la gente si sentiva al sicuro e quando sono arrivate le scosse non è uscita di casa. Mia cognata viveva in uno di questi, in via Sturzo: fino alla settimana precedente aveva dormito nel camper, poi era rientrata perché aveva il bambino con la febbre. La notte arrivò la prima scossa poco dopo le undici e la sua amica, che aveva anche lei un camper a Collemaggio, le telefonò insistendo perché andassero a dormire fuori; lei all’inizio fece resistenza ma alla fine a mezzanotte si decise. Praticamente l’ha salvata l’amica. Per le scale, pochi giorni prima, mentre stava uscendo per andare a passare la notte nel camper, aveva incontrato una vicina con la borsa della spesa: “Tizià, ma dove vai?”, le aveva chiesto. “Qui non succede niente! Se casca questo palazzo, casca tutta l’Aquila!”. E quella signora è morta, sono morti tutti».
Alla domanda dove si trovasse lui, alle 3 e 32 di quel 6 aprile quando è arrivata “la botta grossa”, il pensiero di Cialente corre a ritroso, il ritmo dei ricordi accelera, quasi a ricostruire in tempo reale la concitazione di quei momenti, lo smarrimento di chi non capisce subito cosa sta succedendo, lo scatto animalesco verso i figli da proteggere. «Ero qui, in questa casa, al telefono con il questore che, agitatissimo, continuava a chiedermi di chiudere le scuole; io le avevo già chiuse dopo la scossa del 30 marzo per due giorni e non mi decidevo; mia suocera mi chiamava per dirci di uscire di casa ma mia moglie era già a letto e non ne voleva sapere. Io chiudo le scuole, mi dicevo, ma a che titolo? Che cosa racconto agli aquilani? Perché un provvedimento del genere significa dichiarare alla gente che si è in una situazione di allarme. Poi non è una garanzia, perché finisce che i bambini stanno a casa davanti alla playstation e il tetto magari gli crolla in testa lo stesso. Insomma, mentre stavo lì fra chiudo e non chiudo al telefono con il mio assessore ai Lavori pubblici, arriva la scossa e lui mi fa: “Massimo che aspetti, chiudi, chiudi e domani vediamo!”. Una responsabilità enorme, ero terrorizzato». La terra trema e poi smette; poi riprende ancora a ondeggiare e non si sa quando finisce.
Quella era la notte in cui tutto crollava, la notte del 6 aprile 2009, quando la gente si precipitava urlando fuori dalla porta in mezzo alla polvere cercando di mettersi in salvo; la notte in cui il dottore ha ritrovato un vecchio pacchetto e, dopo mesi che aveva smesso con le sigarette, ha ricominciato a fumare. Poi ha aperto l’armadio, ha preso una camicia pulita, scelto una cravatta e si è vestito da sindaco per uscire nella sua città distrutta.
Massimo Cialente, ex sindaco a L’Aquila. Gennaio 2019. Fotografia di Stefano Stranges
«Ho chiamato i figli – il piccolo fortunatamente era in gita scolastica – li ho caricati sul camper parcheggiato qui fuori, ho messo il maggiore alla guida e a quel punto mi sono accorto che la strada aveva ceduto, bisognava procedere rasentando il muro. Sulla città si gonfiava un fungo giallastro che sembrava un fungo atomico e mia suocera racconta che gridavo: “L’Aquila è finita, l’Aquila è finita!”. Mi era crollato il centro operativo comunale, quello regionale era distrutto, le telefonate si susseguivano ininterrottamente. Mi dicono: “Massimo, Onna non c’è più”, poi un collega mi fa: “manda qualcuno in via Sturzo”, e intanto dalla radio arrivavano le notizie dei primi morti. Ho i brividi a ripensarci».
Ma è solo l’inizio. «Io in realtà non avevo ancora visto niente con i miei occhi e così due giorni dopo ho cominciato a girare da solo, di notte, per la città devastata». Fa una pausa, si accende un’altra sigaretta, posa con attenzione l’accendino sul tavolo. «Avevo una parente, di cui da ragazzo ero innamorato pazzo, e poi un’amica che per me era come una sorella. Sapete quando si cresce insieme e le famiglie si frequentano, loro non avevano ancora la televisione e venivano da noi a guardarla. Ecco, i loro fantasmi me li vedevo davanti mentre camminavo. Io sono medico, ho fatto autopsie, la morte non mi ha mai fatto impressione e invece in quei momenti provavo un’angoscia mista a terrore. Ricordo la vetrina della Benetton con dei manichini bianchi caduti uno sull’altro, come accasciati: mi davano l’idea di corpi, corpi di esseri umani, e io ero da solo in questo buio assoluto a guardare questi manichini. Questa è forse l’immagine più drammatica che conservo». Il lutto, lo stress post traumatico arrivano all’improvviso: «Non avevo pianto né quando è morta mia madre nel 2006, né quando nel 2000 era morto mio fratello, più piccolo di me; non ho pianto nemmeno subito dopo il terremoto, o il giorno dei funerali; ho cominciato davvero a piangere il giorno di Pasqua quando con la Pezzopane andammo a Onna, dove si celebrava la messa sotto il tendone: a un certo punto portarono i lumini, uno per ogni vittima, e lì realizzai quello che era successo. Per lungo tempo, dopo, ho avuto la commozione facile».
Poi sono arrivati il decisionismo di Berlusconi e il “miracolo” delle new town. Cialente non ha esitazioni: «Questa è stata responsabilità mia. Io credo che al governo avessero deciso di non ricostruire subito la città. È andata così: venne Berlusconi e mi disse che per l’Aquila avevano deciso di fare tremila case antisismiche. Io ero contrario alle new town perché questa è una città particolare, una federazione di piccoli centri, e l’idea che un cittadino accetti di trasferirsi è inconcepibile; non li porti quelli di Bagno a Pianola, tanto che ho dovuto fare 60/70 aree di accoglienza, praticamente una tendopoli per ogni frazione».
Ed eppure, alla fine, è andata proprio così: «Alla fine dissi di sì alle new town perché avevo un solo obiettivo, riportare la gente all’Aquila. Nel 1703 dopo il terremoto fu mandato un commissario straordinario, un certo Garofalo, e che fece? Mise le palizzate alle porte della città per impedire che gli aquilani scappassero. Io dovevo fare la stessa cosa. C’era un solo modo, accettare la proposta di Berlusconi sul progetto C.A.S.E., così accettai e cominciai a pensare come disporle». Poi, il colpo di scena. «Il 5 maggio, in piena notte, mi chiama trafelato il mio ragioniere capo e mi dice: “Berlusconi ha firmato l’ordinanza!”. Una che non mi avevano mai fatto vedere e che recitava: “A seguito del sisma, tutti gli uffici statali, regionali, i reparti specialistici ospedalieri vengono trasferiti transitoriamente nelle città vicine. Stesso trattamento per i dipendenti di questi uffici, sulla scorta del danno riportato dalla casa”. Cioè rimanevano soltanto il Comune e le scuole dell’obbligo; la città era morta. Successe un casino. Dissi: “Vi dò venti minuti per mettervi in salvo, prima che scateni la rivoluzione. E poi mandate pure l’esercito”. Ero fuori di me: il cuore mi batteva impazzito, la voce era salita di due toni, mi sembrava di morire. Bertolaso e Letta cercavano di calmarmi ma io non volevo nemmeno vederli; dissi loro: “Fra poco sarete circondati, o Berlusconi annulla subito l’ordinanza o siete morti”. Avrei scatenato la città e la città mi avrebbe seguito». Una vera e propria chiamata alle armi in difesa della terra assediata: niente male per un semplice diacono. Che fosse davvero intenzionato a far scoppiare la guerra o il suo fosse soltanto un bluff, alla fine quella partita la vinse lui, Cialente: «Alla due di notte Letta mi disse che avevano tirato giù dal letto Berlusconi e gli avevano fatto annullare l’ordinanza».
L’Aquila, gennaio 2019. Fotografia di Stefano Stranges
Il giorno che segue la battaglia è sempre il più difficile, in particolare se sei tachicardico, insonne e hai sessantacinquemila sfollati che aspettano una parola da te. «Dovevo prendere il microfono e parlare alla popolazione a due mesi dal sisma e dissi, la voce rotta dall’emozione, che la città voleva essere rispettata. E da allora al governo hanno cambiato strategia politica».
Il dilemma rimaneva quello di Garofalo, non far scappare gli aquilani. «Come fai a far stare una bestia in un posto? Tieni i cuccioli, perché dove stanno loro, sta la bestia: e quindi io e la Pezzopane facemmo l’unica cosa intelligente, riaprire tutte le scuole a settembre all’Aquila. Fu un miracolo: riuscimmo a organizzare classi per 17.500 studenti in tutto il cratere. Quelli che avevo sulla costa si alzavano alle cinque del mattino per venire in classe qui, e i genitori facevano lo stesso con il lavoro. Avevamo creato una città virtuale in cui gli uffici erano ovunque, perfino nei capannoni industriali. Al censimento dell’ottobre 2011 avevo 68mila abitanti, anche se in condizioni disperanti, pochissimi avevano abbandonato. Ho vinto la battaglia; senza mettere le palizzate io gli aquilani li ho tenuti tutti, anche se a fare una vita difficile che non mi hanno mai perdonato. Ma io dico sempre: è toccato a noi e quindi o ce ne andiamo tutti, oppure una comunità, se vuole avere un senso nella storia, reagisce».
Tuttavia il peso della responsabilità, dopo dieci anni, non è lieve. «Non sono più lo stesso», ammette Cialente, lapidario. A indignarlo è soprattutto chi ha strumentalizzato il terremoto: «Nessuno ha raccontato la verità, hanno usato la tragedia per obiettivi politici, come stanno facendo adesso per Rigopiano o Amatrice: ci sono comunità spezzate e nessuno si sta sedendo a tavolino a chiedersi che cosa si può fare per risolvere il problema, l’unica cosa che fanno è cercare di chi è la colpa. Oggi come dieci anni fa, dove all’Aquila la preoccupazione era affossare Berlusconi o glorificarlo».
E ora si avvicina un decennale di imprese abbandonate, questioni irrisolte, ferite non sanate e lutti non elaborati. Fuor di metafora, dieci anni di documenti, sentenze, ricorsi ad accumularsi negli archivi e fuori, per le strade, ancora troppi tubi innocenti a reggere i muri, palazzi del centro storico restaurati a suon di milioni e spesso vuoti; mentre altrove, nelle frazioni o in periferia, le new town, nate già vecchie, cedono, puntellate anche loro, nell’attesa che un genius loci si manifesti a rimettere in sesto una comunità che si sforza da anni di tenere insieme i pezzi. Letteralmente e non.
«Vorrei che il decennale dell’Aquila fosse un’occasione per una vera condivisione nazionale di tutto quello che abbiamo visto dopo i terremoti di questi anni. Dobbiamo riprendere in mano i fascicoli e capire passo passo dove sono emerse delle difficoltà, dove si è perso tempo, dove i progetti si sono incagliati. Ho scritto a Gentiloni, ne ho parlato con Del Rio, mi dicono “Massimo ma che vuoi, la burocrazia è un moloch”». Fa un sospiro, torna al leitmotiv che lo tormenta: «Questa è l’Italia, esportiamo la cultura, abbiamo insegnato la sismologia al mondo e poi di fronte a un terremoto di sesto grado, di media intensità, come ne accadono duecento all’anno in tutto il pianeta, abbiamo trecento morti».
L’Aquila, gennaio 2019. Fotografia di Stefano Stranges
Dieci anni è anche un tempo sufficiente per far maturare i rimpianti. «Ho perso alcune battaglie. Ho chiesto di accelerare i lavori pubblici ma col nuovo governo c’è stato un rallentamento; ho lasciato una città che si stava rialzando e ora invece è ferma. La ricostruzione richiede un’attenzione continua e ora ci troviamo senza i responsabili degli uffici, nelle frazioni hanno fatto cartello i progettisti ma non riescono a stare dietro a tutto: così come io non posso fare quaranta broncoscopie in un giorno, non si può chiedere a un ingegnere di occuparsi di 750 progetti come è successo all’Aquila. La ricostruzione pubblica sta bloccando il centro storico, i sottoservizi sono andati a rilento, basta il rinvenimento di una fogna del ‘700 perché tutto si blocchi. La città arranca perché non c’è un disegno». Il puzzle perde i pezzi e Cialente lo giudica con occhio clinico:
«Un malato più lo tieni in rianimazione più diminuiscono le possibilità che si riprenda bene; alla fine ne esce con le piaghe da decubito, una subinfezione bronchiale e sta una vita in riabilitazione».
I rimpianti, però, sono soprattutto le sconfitte: «Non mi hanno fatto passare la moralizzazione della ricostruzione privata: qui sono venute grandi imprese che stavano morendo e sono entrate sul mercato, hanno preso le commesse, con i soldi delle banche hanno tamponato i buchi e poi hanno chiuso, sono fallite. Volevo delle regole perché i fondi sono pubblici e lo Stato ha interesse che si ricostruisca rapidamente e bene. Questo è stato il mio più grande rammarico».
E poi, sul piano personale, un generale non si rassegna a non essere più in prima linea, nonostante le amarezze, i costi personali, le mille sigarette fumate. «Io sapevo che il mio secondo mandato finiva nel 2017 e non ho dato retta a chi mi diceva “dimettiti dopo due anni e mezzo, facciamo un breve commissariamento e poi ti ricandidi, tanto vinci e tiriamo fino al 2020”. Non mi è sembrato né bello né leale. Ma forse, col senno di poi, avrei dovuto farlo. Troppe cose sono rimaste in sospeso».
L’autrice. Federica Tourn è giornalista professionista; come freelance si è occupata soprattutto di migranti, religioni, diritti umani, mafie, femminismo. Ha scritto reportage da diversi paesi, dalla Siria alla Tunisia, dalla Namibia all’Ucraina; ha collaborato fra gli altri con Diario, D di Repubblica, Left, Jesus, Eastwest, Huffingto
Il fotografo. Stefano Stranges è un fotografo indipendente italiano. Specializzatosi nel 2012 con un Masterclass della Magnum Photo, i suoi lavori sono focalizzati sul tema reportagistico sociale, alternando servizi istituzionali e reportage di viaggio, a collaborazioni con organizzazioni umanitarie e riviste del settore, tra le quali Rolling Stone, Il Reportage, Jesus, Il Manifesto, La Stampa, La Repubblica, Left. Nel 2017 ha fondato, insieme a tre colleghi fotogiornalisti, il CollettivoX, progetto legato alla didattica e sensibilizzazione nelle scuole e in centri formativi delle città. Nello stesso anno entra a far parte del collettivo fotogiornalistico Walkabout-Photography. Attualmente è impegnato in un progetto a lungo termine con l’ong Terre des Hommes.
L’Aquila, gennaio 2019. Fotografia di Stefano Stranges
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
Per informazioni e contatti con Lo stato delle cose scrivere qui: osservatoriolostatodellecose
Per essere aggiornati sugli appuntamenti e iniziative dello Stato delle cose potete seguirci anche sui social network seguiteci anche sulla pagina Facebook e sul profilo Instagram ufficiali del progetto.