Tolentino, un anno dopo. E’ ottobre ma fa ancora caldo sulle colline di Tolentino. Il freddo, quello vero, deve ancora arrivare in questo strano autunno 2017. É passato un anno esatto da quelle scosse che hanno fatto ballare tutto, che hanno diruto, sepolto, spaccato, quella del 26 ottobre ma soprattutto da quella del 30, quella che ha fregato tutti perché tutti pensavano che il peggio fosse passato “perché il terremoto fa così, dicevano: dopo quella forte la scosse diventano sempre più deboli! Prima, in agosto, la scossa di 6.0 ad Accumoli e pensavamo che il grosso fosse finito. E invece Bam! 26 ottobre ore 19.10 scossa di magnitudo 5,4. Pensavamo davvero che la furia si fosse sfogata e invece Bam!: 30 ottobre ore 07.40 scossa di magnitudo 6,5”.
L’inimmaginabile potenza del “mostro” è lì da vedere, sul monte Vettore e ha le fattezze di una spaccatura che ha diviso in due la montagna: “Puoi salire e metterci dentro un braccio se vuoi fare come San Tommaso”.
“Il 26 ho preso paura”, racconta Gabriele che abita fuori dal centro dalle parti di Regnano. “Ballava tutto, c’era polvere ovunque, non capivi dove era il sopra e dove era il sotto. Ma il 30, Madonna! Il 30 ho sentito proprio i muri, le pietre dei muri che si spaccavano”. Come lui ne ho conosciute diverse di persone senza casa: Fabiano, imprenditore, ci mostra il suo appartamento svuotato da tutto prima che venisse dichiarata l’inagibilità; un’anziana signora che porta tutti i giorni da mangiare al suo gatto che non ha voluto lasciare la villetta accanto alla ferrovia; ed ancora i tanti che per strada ci fermano per chiedere quando possono andare nelle casette di legno, peraltro ancora da costruire.
Tanti mi dicono che per fortuna il 30 era appena cambiata l’ora legale altrimenti erano in chiesa e chissà cosa succedeva; “e chissà se non era domenica e c’erano i bimbi a scuola!”. Sì, le chiese. Praticamente tutti gli edifici ecclesiastici del centro storico sono lesionati, più o meno duramente, e sono inagibili. Dal Santuario di San Nicola alla Concattedrale di San Catervo, a Santa Maria Nuova, a San Francesco, al Santissimo Sacramento dove sono crollate integralmente le volte della nave. Il culto è assicurato grazie ai tendoni della protezione civile. Solo la Chiesa del Sacro Cuore, sede della confraternita dei “Sacconi”, è stata quasi integralmente restaurata grazie a fondi stanziati dal governo ungherese.
Oltre alle chiese molti sono gli edifici storici battuti dalla cieca furia del terremoto: inagibile il palazzo comunale, il Palazzo Parisani-Bezzi col il Museo Napoleonico e quello facente capo alla famiglia Gentiloni. Inagibile l’ospedale e scuole di ogni ordine e grado.
Ad un anno esatto dal terremoto le zone rosse non ci sono più ma sono un paio di migliaia i tolentinati che hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni tra chi si è trasferito nei paesi vicini, chi se n’è andato “al mare”, sulla costa Adriatica, e chi ha preso alloggio nel villaggio container nella zona industriale a sud est della città vicino al Castello della Rancia, anch’esso lesionato.
Tolentino è apparentemente una città normale perché le ferite sono lì da vedere, camminando per le vie ed entrando nelle case private. Tanti sono i segni che ci raccontano di fughe precipitose, di poche cose portate via, di case chiuse, da sistemare o abbattere, tutte ferme nel tempo: “Vedi, il tempo in queste case si è fermato all’ottobre dell’anno scorso; l’unico segno del suo trascorrere è dato dalle piante rinsecchite negli appartamenti”.
Girando per la città si trovano anche i segni lasciati in città dall’opera della macchina della Protezione Civile quando in poche ore persone normali si sono ritrovate a gestire un’emergenza fatta da migliaia di persone senza casa che avevano bisogno di tutto e si sono ingegnati per alloggiarli negli impianti sportivi, nei capannoni in disuso, li hanno fatti dormire le prime notti sui lettini donati dai bagni del litorale adriatico. Enormi saloni semivuoti con brande e coperte della protezione civile, container tecnici sono resti archeologici di quelle prime concitate settimane di ordinaria emergenza. “era impossibile trovare un camion di movimentazione terra, una scavatrice, un camion gru erano tutti impegnati in interventi e nelle aziende”.
Se è vero che negozianti ed attività in città hanno sofferto – ed ancora stentano o resistono in edifici ufficialmente inagibili – in diverse zone della città le attività manifatturiere hanno fortunatamente tenuto. Mi viene da citare – prima inter pares – la ditta Ales che si occupa di produzione di articoli in pelle e tessuto che non solo non ha fermato la produzione ma ha ospitato nella sua sede una ditta “concorrente” che ha avuto il capannone danneggiato e ha dato alloggio negli uffici ad una famiglia di sfollati.
E’ ottobre e fa ancora caldo. Da poco è stato riaperto al pubblico il Museo Internazionale dell’Umorismo nell’arte (Miumor) presso Palazzo Sangallo, la maggior parte dei servizi ospedalieri hanno ripreso a funzionare in città e da alcune settimana in Piazza della Libertà è tornato anche il mercato del martedì mattina. Ma dice qualcuno: “Anche l’anno scorso era così anche se faceva meno caldo. E’ strano tutto questo caldo. E poi è venuto il terremoto”.
L’autore. Mario Rota è del 1967, è laureato in Lettere Classiche con una tesi in archeologia e vive a Bergamo. Inizia a fotografare in modo assolutamente inconsapevole sin da piccolo. Tra il 1989 ed il 1994 partecipa come archeologo e documentarista a diverse spedizioni scientifiche in Nord Africa, Turchia e Grecia approfondendo l’uso della luce, la composizione e l’arte di improvvisare in condizioni spesso impossibili. Da qui il suo approccio con la fotografia cambia e inizia a pensare che possa diventare una professione: negli anni successivi è impegnato nella riproduzione fotografica di beni storico-artistici per conto di istituzioni pubbliche e private italiane ed estere. Ora lavora come freelance per agenzie ed aziende, collabora con testate locali, nazionali ed estere e organizzazioni no profit, segue il mondo del teatro, della danza e della musica e dal 2003 fa parte di uno studio internazionale di fotografia di matrimonio. Ha all’attivo più di venti esposizioni personali e collettive.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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