Monto il lavoro foto per foto sono mesi che cerco di dare un senso a tutto questo mi rileggo mille volte i diari cerco di parlare con Danilo che è l’amico che mi ha accompagnato. cerco le foto dove si vede la ricostruzione o distruzioni propedeutiche alla ricostruzione, non mi piacciono, e non c’entrano niente è solo il desiderio che tutto questo avvenga e in fretta che la gente torni nelle loro case che sia invitata ad uscire da questi nuovi agglomerati urbani che nel frattempo che davano loro conforto e li allontanavano dal loro modello di vita, dalle persone care, che li ha riparati comunicando loro un modello di vita conformista. che li ha allontanati dalle piazze e dai vicoli belli e sociali dei loro paesi che li ha trasportati in questa terra di memoria e di speranza.
Entro dentro una casa e osservo la propagazione delle onde su un piano bidimensionale. Nelle casa distrutta la traccia del sisma disegna rami sui muri. È una forma ricorrente che in natura si ripete nel tragico e nel sublime. Come i rami dell’albero o i disegni dei tentacoli di un polpo quando si esaminano in un fotografico congelamento temporale. Assieme e distinta a questa visione composta da mille “v” intrecciate che dirigono i loro rami verso l’alto, vive, in questi luoghi, uno stato di calma. Altro tipo di congelamento temporale rivela una certa aria familiare, che ha il sapore di un controllato disordine non ha avuto il tempo di una ricomposizione che si confronta con il racconto di un tardo pomeriggio passato davanti a un caffè mentre il piccolo di casa gioca in cucina vicino a una madre. In questa casa il disegno scavato dei rami guarda due tazzine di caffè poste una di fronte all’altra su un tavolino del salotto.
Abbiamo, con Danilo, viaggiato alla scoperta dell’alba. Tutto è nato da un casuale incontro, una rivelazione un’apparizione avvenuta nel mentre che cercavamo altro. Ci siamo immersi e abbiamo ammirato la bellezza della foschia mattutina. Straordinario effetto di vapori che interagiscono con il sole della mattina e determinano uno stato di visibilità e invisibilità che crea un accesso in un mondo dove l’iperrealismo sfocia in una performance surreale spontanea. La nebbia è un velo che nasconde la cruda realtà della natura, squarciato da un raggio di sole che come una lama separa questa impalpabile stoffa d’acqua per rivelare parzialmente ciò che è nascosto. La nebbia e il lampo di luce concorrono in questa situazione spazio temporale e interagendo in modo coordinato divengono nascondiglio e svelamento allo stesso tempo. Come essere velo e squarciamento di se stesso nel medesimo tempo.
È il segno tangibile della separazione. È cicatrice che taglia la materia. È distacco evidente che si manifesta sulla stessa superficie. È allontanamento tra cosa e cosa. Lembo di terra si distacca dal lembo di terra. L’uomo colpito si allontana dalla stessa madre, lei invece, la natura, rimane impassibile, mentre apparentemente cieca prosegue il suo percorso. A volte la crepa è il segno dell’uomo onnipotente che agendo in nome di un presunto/dichiarato progresso, (ma poi lo è davvero?) o del profitto produce passaggi, costruisce città, ferma corsi dei fiumi, crea laghi, disbosca la montagna.
Il primo oggetto che incontro è un cespuglio. Sembra sconvolto da un cataclisma e sarebbe uno dei tanti umili indifferenti ciuffi di natura se qualcuno, un uomo, non avesse localizzato l’epicentro del terremoto in questo luogo specifico. Bisogna camminare e osservare, camminare è una pratica meditativa, è un mezzo per appropriarsi del territorio è un gesto per approfondire un’appartenenza. Affrontare a piedi lo spazio del disastro ha il significato per me di una preghiera mistica e di una processione laica allo stesso tempo. Questo atto antico e semplice del viaggiatore di ogni spazio e di ogni tempo mi ricongiunge con le divinità della terra e del cielo, alla mia tradizione spirituale, pagana e laica. Camminando sull’ipotetica linea della distruzione del terremoto ho incontrato una roccia spaccata metafora dell’esplosione e della frammentazione.
È necessario uscire dal già visto, ampliare le competenze del proprio ruolo, utilizzare l’immaginazione come strumento principale per guardare a ciò che è evidente con diffidenza con lo scopo unico di cercare la verità che ogni manifestazione esplicita nasconde. E così la crepa diventa il simbolo della separazione tra superficie e superficie dello stesso oggetto e così la attraversi con lo sguardo per vedere che cosa c’è dentro e oltre di lei. Attraversarla con lo sguardo andare oltre il muro nello spazio e nel tempo. La fotografia è la macchina del tempo e io vedo sgretolarsi quella crepa poi il muro poi tutto diventare polvere portata via dal vento per lasciare allo sguardo il privilegio di guardare alla verità e quello che vedi è ciò che ci è stato consegnato milioni di anni fa ed è la proiezione di come potrebbe ritornare in un futuro relativamente remoto. La crepa è all’interno dello stesso tessuto, una frattura che si manifesta tra l’uomo e il suo ambiente. Tra natura e natura, cioè. Solo un poeta solo un fotografo può entrare in questi ambiti e riportarli con semplicità. Piano mi allontano dall’immagine della distruzione. Non voglio che il dolore causato da essa diventi il filtro unico attraverso il quale osservare.
Piano mi allontano dall’immagine della distruzione. Non voglio che il dolore causato da essa diventi il filtro unico attraverso il quale osservare. Freddamente ho deciso di camminare dall’epicentro del terremoto al centro della città per ripercorrere il momento della frattura. A passo lento. Ho attivato la mia attenzione per osservare gli indizi e la natura sulla linea della distruzione. Un evento severo e maestoso che colpisce senza apparente motivo e che genera il crollo di certezze effimere costruite in secoli di tentativi di predominio incontrastato sul nostro ambiente, ci getta nello sconforto, ci toglie il vantaggio psicologico di sicurezze acquisite se pur senza solide basi. L’osservazione del paesaggio, la comprensione della natura della sua potenza mi ha permesso di accettare la mia condizione. La natura mi cura, quando mi ha ricorda la paura e impone le basi per un rapporto più rispettoso e equilibrato tra me e il mio habitat attraverso il superamento di un egocentrismo infantile e atavico.
A volte la differenza tra libertà e fuga è talmente piccola da non poter essere distinta e questa camminata per respirare la campagna mi sa di fuga dal rombo, dalla pioggia mortale di massi e detriti dalla polvere che soffoca, è un gesto che sostituisce al senso del dolore la bellezza. Il terremoto è maestoso, naturale, violento, terribile e bello. Distrugge e rigenera allo stesso tempo. Devasta abitazioni, distrugge esistenze. Può cambiare il corso dei fiumi o creare dal nulla catene montuose. Obbliga a nuovi equilibri.
Dove finisce il bosco inizia la campagna e qui appaiono le prime abitazioni fino ad infoltirsi nelle periferie dei villaggi. La casa nella sua forma più semplice ha lo scopo di proteggere da intemperie e pericoli, rappresenta il focolare, è simbolo della serenità domestica, luogo del riposo. Se è rispettosa si inserisce nei contesti, semplicemente, come un elemento che concorre ad un equilibrio. In alcune accezioni più estreme ispirate da un lato oscuro dell’indole umana diventa simbolo di potere e opulenza tende a imporsi su tutto il resto, distrugge la bellezza quando diventa figura predominante e sconvolge scale e funzioni esasperando un confronto con la natura, generando un sentimento che va dall’emulazione di essa a un tentativo di dominio. Vuole farsi tempio ma senza l’approfondimento del magnetismo del luogo, senza preghiera, senza magia. In questo teatro, che è la storia naturale, l’uomo interpreta a volte la parte del predatore e altre volte la vittima impotente continuamente in balia di forze potenti e irrefrenabili, spietate, prive di pietà, che senza apparente motivo spazza via ciò che si pone sul suo cammino. Questa è storia quotidiana, è una matrice che si ripropone quotidianamente in ogni parte del mondo in piccoli e grandi eventi.
Il sisma, è un’improvvisa vibrazione del terreno causata da una brusca liberazione di energia tale da propagarsi, in forma di onde e violentemente, in tutte le direzioni. La roccia che si oppone alla spinta causata da spostamenti di masse sotterranee fa si che si accumuli energia all’interno della sua struttura e quando la pressione, col suo aumentare, vince questa resistenza la potenza accumulata sino a quel momento si sprigiona attraverso una frattura violenta e impetuosa. È qui che una forza distruttiva si propaga in modo verticale, ad emergere, coprendo lo spazio che divide l’ipocentro occultato in un sottosuolo remoto sino all’epicentro sulla superficie che rappresenta il punto di inizio del disastro. Questo è reso possibile da una linea di minore resistenza della roccia che per questa caratteristica diventa la linea di diffusione della distruzione. È la faglia in ultima analisi che decide il percorso della paura.
Reti arancioni come limiti, confini che la condizione di emergenza impone nel frattempo che interrompe le libertà, segnali che ti limitano, atmosfera che ti schiaccia, necessità (ma è vero fino in fondo?) che ti conducono in confortevoli, rifinite prigioni dove secolari relazioni vengono scardinate, annullate, decomposte e riproposte casualmente come dadi che cadono su un tavolo da gioco.
L’autore. Dario Coletti, romano, classe 1959 è fotografo professionista e dalla fine degli anni Ottanta. Collabora con testate giornalistiche, istituzioni e organizzazioni umanitarie italiane e internazionali. Da sempre attento alle tematiche del sociale, negli ultimi anni è approdato a una fotografia di più ampio respiro, approfondendo il rapporto tra fotografia e antropologia visiva e sperimentando altri linguaggi visivi come il film documentario, la comunicazione web e la foto fine art. Alla professione affianca l’attività didattica e dopo aver ricoperto il ruolo di vicedirettore dell’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata per circa dieci anni è attualmente coordinatore del Dipartimento di Fotogiornalismo dell’ISFCI a Roma. Assieme a una dozzina di fotografi italiani lavora, tra il 2007 e il 2014 al progetto Unescoitalia del Ministero per i Beni Ambientali e Culturali da cui nascono una mostra itinerante e il catalogo Wonders of Italy (Bruxelles 2007). Collabora inoltre con l’associazione Malik di Cagliari come responsabile del settore immagine all’interno dell’iniziativa I libri aiutano a leggere il mondo (Cagliari 2013-2017) e con la rivista Il Calendario del Popolo (Roma 2013-2016) dove segue la rubrica di commento fotografico: “mms” e dove è membro del comitato scientifico. Da pochi mesi cura la rubrica, campo visivo per la rivista online e cartacea Sentire. In collaborazione con alcuni editori nazionali pubblica diversi libri tra i quali: Gente di miniera – (Poliedro 1999), Ispantos – (Soter editrice Sassari 2006), Il fotografo e lo sciamano (Postcart Roma 2013), Dentro – (Postcart Roma 2014). Le sue fotografie sono conservate presso biblioteche e musei italiani. Nel 2013 è stato fra gli autori ospiti a L’Aquila dell’esperienza di Confotografia ed è da lì che è scaturito il progetto di Senza apparente motivo. Elegia per L’Aquila, destinato a sfociare in un libro di imminente pubblicazione.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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