Immagini di Alessandro Cinque e testo di Chiara Sgreccia
Al villaggio container di Tolentino a gennaio 2019
Scendiamo dall’auto e l’aria è pungente. Siamo nella zona industriale: “Fallimenti Tolentino” cita l’enorme insegna che come un paradosso definisce il luogo programmato per il nostro incontro. Flavia, presidente del Comitato “30 ottobre”, ci aspetta. Con lei c’è Moti, una donna di 37 anni che, con il compagno e la bimba nata da poco meno di un anno, vive nella camera di un B&B a pochi passi. Moti fino a qualche mese fa frequentava assiduamente la mensa del villaggio container allestito dal Comune per accogliere gli sfollati del terremoto. Ha ben chiara la realtà di quella sistemazione fra strette pareti di lamiera, che ricorda un centro profughi, dove gli occupanti languiscono in stanze tutte uguali, costretti a condividere servizi igienici senza chiave e aree comuni in cui si gela perché i termosifoni non funzionano. Se lo ricorda bene, il container, Moti, e mentre parla ogni tanto gli occhi le si riempiono di lacrime.
Sono arrabbiate, si vede subito: qui a Tolentino dal 30 ottobre 2016 non è cambiato molto. Ci descrivono la notte della scossa, quella del 26 ottobre, con uno sguardo di terrore: un forte boato, poi il tremore, la luce che salta e il buio.
Fa freddo e all’aperto non resistiamo a lungo. Ci avviamo verso il villaggio. Sono le 10 del mattino, c’è un grande silenzio e attorno non vediamo nessuno. Da un lato qualche roulotte si affianca all’enorme blocco di container, dall’altro il nuovo parco giochi inaugurato a dicembre è deserto: l’ingresso è contrassegnato da una minuta bicicletta rosa ma l’altalena, lo scivolo, il campetto da calcio sono vuoti.
Poco più in là, stesi sulla rete, alcuni abiti sono appesi in maniera disordinata.
Sono tre i blocchi di container che campeggiano di fronte a noi: enormi, bianchi, identici. Iniziamo dall’Ufficio della Protezione Civile: vorremmo avvisarli del nostro arrivo ma non ci apre nessuno. Flavia ci ha prevenuto che la Protezione Civile è andata via alla fine del 2018: «Ogni tanto qualche volontario passa a dare un’occhiata – conferma – ma non c’è più nessuno a controllare gli accessi». La sicurezza è un altro problema che affligge il villaggio container, dato che con una spinta le porte in vetro si aprono. Flavia ci racconta che la situazione non è semplice, ci sono già stati sporadici episodi di violenza e la tensione e il nervosismo raggiungono spesso livelli preoccupanti. Entriamo. Accediamo dal blocco 2, quello con la mensa. Un uomo e una donna si affaccendano tra i contenitori in acciaio per la preparazione del pranzo, di fronte a noi ci sono lunghe tavolate e sedie vuote. Il servizio mensa (colazione, pranzo e cena) è fornito gratuitamente agli sfollati ed è gestito da una cooperativa di Faenza che, nella scelta delle materie prime, cerca di tenere in considerazione le differenti abitudini alimentari degli occupanti.
Ci sono 247 persone all’interno, di etnie e nazionalità differenti. Lungo i corridoi incontriamo un uomo che parla con un marcato accento dell’Est; ci racconta la sua vita nel container e subito emerge la frustrazione: «Qui al blocco 2 si ritrovano tutti i bambini a giocare – si lamenta – dovrebbero fare i compiti e invece corrono, ridono e gridano senza sosta; non c’è educazione e i genitori non si occupano dei figli». Sopraggiunge la moglie, che con qualche parola e un grande sorriso cerca di smorzare l’insofferenza del marito ma la tensione e le problematiche, che caratterizzano la convivenza forzata di troppe persone con abitudini differenti, sono evidenti.
«Il sindaco di Tolentino Giuseppe Pezzanesi – ci racconta Flavia – in seguito all’emergenza abitativa determinata dal sisma decise, in accordo con la comunità, di non fare richiesta per le Sae (Soluzioni abitative d’emergenza), le cosiddette casette, per i costi elevati che, finita l’emergenza, sarebbero ricaduti sul Comune. E anche per evitare che l’urbanizzazione deturpasse il territorio, perché si sarebbero trasformate facilmente in strutture di permanenza a lungo temine, non sempre sufficientemente equipaggiate. Scelse invece di costruire i container, velocizzando al massimo i lavori delle nuove costruzioni e l’acquisizione degli appartamenti Erap in modo che i cittadini di Tolentino potessero rientrare al più presto in case vere e proprie».
Ma la realtà e che, a oltre due anni dal terremoto che ha scosso il Centro Italia, i cittadini sono ancora qui: tra il villaggio container, gli alberghi e la costa.
Flavia ci mostra un grande capannone che il Comune ha acquistato da un privato, che dovrà ospitare 45 appartamenti; è ancora soltanto uno scheletro vuoto. A “quasi zero” sono anche i lavori per le nuove strutture che dovrebbero accogliere tremila persone rimaste senza casa. Gli alloggi Erap non sono accessibili a causa della burocrazia.
Secondo il sindaco la situazione si sbloccherà a ottobre 2020, quando agli abitanti senza casa finalmente saranno consegnate le chiavi dei nuovi appartamenti, anche se, guardandosi attorno, non è facile da credere. E difatti dalla nostra visita a Tolentino i tempi sembra si siano ulteriormente allungati, nonostante un cartellone apparso alla fine di maggio annunci trionfalmente “Le nostre Sae” con tanto di immagine delle palazzine che verranno .
Secondo Pezzanesi la causa dei ritardi è, come sempre, la lentezza della burocrazia italiana, il solito gioco di rimandi che impedisce l’attuazione di decisioni già prese. «Noi sindaci facciamo il possibile per tutelare le nostre comunità e, nelle dovute sedi, ribadiamo con enfasi le necessità impellenti e le richieste di persone e territori devastati dal terremoto del 2016», si difende Pezzanesi che, nonostante i ritardi, è ancora convinto che la scelta dei container nei prossimi anni mostrerà i suoi benefici.
Intanto si è raccolta una piccola folla attirata dal rumore delle voci. La voglia di raccontare non manca. Luca e sua moglie Rita vivono con il cane nei 13 mq alle nostre spalle; la porta è rimasta aperta e ci permettono di entrare: ci sono soltanto un letto, un armadio, qualche sedia, una scrivania e la tv appesa alla parete.
«Non stiamo male – ci dice Rita – Certo, qualche problema c’è, perché non è semplice condividere spazi e abitudini con altri, soprattutto a una certa età. Ma non ci lamentiamo». Luca e Rita – che è da poco uscita dall’ospedale per un intervento alla testa – alla fine del mese rientreranno a casa, dato che la loro abitazione aveva danni lievi e finalmente i lavori sembrano avviati alla conclusione.
Fuori inizia a nevischiare e fa freddo anche lungo i corridoi. Soltanto alcuni dei sistemi di riscaldamento funzionano ed è un continuo aprire e chiudere le porte perché, per cambiare blocco, è necessario uscire all’aria aperta e poi rientrare. Alcuni attraversano i passaggi in ciabatte e t-shirt.
Fuori incontriamo Erion e Moussa. Prima erano in affitto, ora non devono pagare nulla. Moussa si trova bene al villaggio container, dove vive con suo figlio. «Il problema è che il terremoto mi ha portato via anche il lavoro. Prima facevo lavori saltuari, ho lavorato alla conceria, sono stato muratore, carpentiere, magazziniere. Riuscivo sempre a cavarmela, ora non mi è rimasto niente», racconta. Poche aziende sono ripartite dopo il 30 ottobre. Erion viene dall’Albania e si lamenta dei vicini, non si sente tranquillo qui perché tutti sono pronti a giudicare: «Chiudo sempre a chiave la porta della mia stanza e tengo le finestre serrate», dice.
Al blocco 3 una signora esce dal bagno con un asciugamano in testa, ci saluta con cortesia e si dirige verso la stanza. I corridoi sono vuoti, il rumore dei passi sul linoleum è forte e l’atmosfera è a tratti spettrale, tra il silenzio interrotto solo a tratti dalle voci e il bianco sporco che tinge tutti gli spazi. Qualche stendino accoglie i panni da asciugare e alcuni fogli battuti al computer sono attaccati alle pareti, a ricordare un evento, un’assemblea, un divieto.
Ci avviciniamo ai bagni, che sono freddi e impersonali. Subito arriva Anika: è egiziana e ci racconta la battaglia che qualche mese fa ha condotto assieme alle donne del suo blocco per ottenere le tende divisorie per le docce. «Al blocco 1 hanno deciso di comprarle ma noi le abbiamo avute senza pagare nulla – afferma soddisfatta – Il problema è che ora nessuno provvede a cambiarle, le tende sono sporche e nelle docce inizia a formarsi la muffa». I servizi igienici sono la nota più dolente dei container: l’acqua calda si esaurisce in fretta, il riscaldamento è scarso e i problemi di pulizia sono all’ordine del giorno.
«Il villaggio container – spiega Flavia – ha dei costi molto elevati. Sono circa 650 mila euro di affitto ogni sei mesi, a cui si aggiungono le spese di pulizia, di manutenzione, di gestione e della mensa. Facendo un calcolo approssimativo, ogni persona incide costa alla Regione circa ventimila euro l’anno. Siamo sicuri che questa sia la soluzione giusta? Oltretutto i container sono stati pensati come struttura di accoglienza temporanea, non per resistere tre anni (il sindaco ha prolungato il contratto di affitto anche per il 2019, ndr) e i problemi iniziano a emergere con chiarezza».
A più due anni e mezzo dal terremoto, ancora 247 persone vivono all’interno del villaggio e non sono tutte terremotate. Oltre tremila attendono ancora una casa in cui vivere. «Soluzioni abitative di emergenza? Se ci vengono date a 3/4 anni dal terremoto di che emergenza stiamo parlando? E i lavori per ricostruire le nostre case?», sottolinea Flavia, che aveva terminato la ristrutturazione del suo appartamento proprio ad agosto 2016, due mesi prima del sisma. «La vita è ora – conclude – e chi ci ridarà gli anni che stiamo perdendo nell’attesa?».
Il fotografo. Alessandro Cinque è nato nel 1988 ad Orvieto. Ha iniziato a scattare le prime fotografie in analogico a 16 anni, a 20 ha aperto il suo studio fotografico. Associa alla fotografia commerciale il reportage e la dedizione per il fotogiornalismo. Quotidiani e magazine hanno pubblicato i suoi lavori. Nel 2017 viene nominato Leica Ambassador per Leica Camera Italia. Nel 2018 riceve l’ Award of Excellence al “POYi. Nel 2019 frequenta L’ICP di New York.
La giornalista. Chiara Sgreccia è giornalista freelance e copywriter. Scrive di attualità, design e filosofia. Tra le testate con cui collabora Marie Claire, Design Diffusion ed Africa. Nasce al Napoli nel 1988, ora vive, zaino spesso in spalla, tra Firenze, Milano ed Ancona.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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