Immagini e testo di Marco D’Antonio. A L’Aquila fra il 2014 e il 2018
con una nota di Antonio Di Giacomo
Gru, polvere, rumori. Dialetti vari e lingue straniere che si percepiscono da dietro le barricate dei cantieri. Ore 17. Silenzio. Portoni e finestre aperte in cui curiosare e da dove, fugacemente, rubare una fotografia. Questa è ormai la città a dieci anni dal terremoto che l’ha quasi completamente distrutta.
L’Aquila non è morta, non è neanche il pavido spettro dell’abbandono come molto spesso si vuol rappresentare, ma è una città che, per una parte della sua popolazione, quella più giovane e più ferocemente colpita dal sisma che le ha tolto la possibilità di conoscerla, è madre, culla, tana e nascondiglio. Giovani e adolescenti popolano i vicoli deserti al calar del sole, facendosi luce nel percorso con i telefonini e poi, dopo uno sguardo attento a destra e sinistra, via dentro il portone del “Tonzo” o del “Circoletto” oppure su per la finestra dentro l’Hotel del Sole da cui si vede la piazzetta e «si può controllare se qualcuno arriva» o nello scantinato del “Palazzone”, «dove vanno le prostitute».
Case e vicoli, una volta abitati e vissuti da famiglie e studenti, trovano un nuovo nome che viene dato loro da chi nel 2009 – l’anno del terremoto – era poco più di un bambino ed oggi, pressoché adolescente, vive in un luogo a lui sconosciuto, senza sapere il nome delle strade e quasi senza avere coscienza di cosa sia una città. La sua città.
Chi stappa una bottiglia di birra, chi gira una canna, chi si allunga su un divano lasciato gentilmente a marcire dal proprietario di casa, chi fa l’amore e chi canta in rima, mimando gli atteggiamenti degli MC americani. Fittizia vita da bassifondi, raccontata dalle scritte sui muri e dalle siringhe usate, buttate ai piedi di un materasso sporco. Una piccola comunità, forse l’unica reale, che vive all’interno dei palazzi, violando quel concetto ormai inesistente di proprietà privata.
Fuori dai vicoli bui, lungo il corso principale, nella piazza del mercato, non più una voce, neanche un’ombra, solo il silenzio. Un invisibile muro sembra amplificare la divisione della città tra adulti e ragazzi che, a causa della mancanza di spazi a loro dedicati, preferiscono ai bar e ai pub – i quali ormai rappresentano il 90 % delle attività commerciali del centro storico – il buio e silenzioso antro della città proibita: la zona rossa.
Gli altri, gli adulti, ormai quasi invisibili se non nelle rare occasioni di rappresentanza, sembrano in preda ad una sorta sindrome di Stoccolma: più occupati a riposizionare il mattone sotto il quale hanno rischiato di perdere la vita, vivono la loro frustrazione in appartamenti spersonalizzati, identici tra di loro ed ormai vicini alla decadenza, che chiamano, quasi fosse un ossimoro: città nuova. Da qui a volte fuggono per ritrovare nella trasgressione furtiva un po’ di intimità, tornando nella loro vecchia casa semidistrutta. Troppo concentrati a contare i mesi rimanenti alla fine della loro diaspora, quasi ignorano la vita dei loro “figli’”.
Nella città vecchia, invece, tra muri crollati, materassi e mobili accatastati in ogni dove, le prostitute vendono sollievo alle fatiche degli operai impegnati nella ricostruzione, violando talami abbandonati o scantinati putrescenti, sotto gli occhi discreti di guardoni. Questi ultimi, protetti e sicuri dal buio delle stanze di una scuola abbandonata, dietro fori fatti nei muri o persiane appositamente sistemate, osservano attentamente gli intimi incontri fugaci.
Nel buio di queste vie si fondono inconsapevolmente le due realtà destinate ad essere, almeno finché la città non verrà ricostruita, almeno finché chi ha vissuto in quegli appartamenti non vi farà ritorno, la metafora di un’assenza in cui la giustificabile presenza di alcuni rappresenta l’ingiustificabile assenza di altri.
Il fotografo. Marco D’Antonio nasce a L’Aquila nel 1978 . Dal 1999 inizia la sua carriera professionale appena conclusi gli studi di fotografia presso la scuola Graffiti di Roma. Fotogiornalista, viaggiatore, appassionato di storie, fotografo di scena, ritrattista e sperimentatore di nuovi linguaggi fotografici, negli anni viaggia in Europa, Medio Oriente, Asia, Africa e America Latina, producendo diversi progetti e reportage molti dei quali pubblicati sulle maggiori testate e agenzie fotografiche nazionali e straniere. E’ autore di due libri: Volti premiato nella sezione fotografia nel premio Annalisa Scafi nel 2008, realizzato all’interno del carcere “Le costarelle” di L’Aquila, e L’Aquila anno 0, nel 2010, che racconta la vita nella sua città, ad un anno dal terremoto. Insieme ad altri fotografi, prendere parte al volume 32 secondi per l’editore Massimo Roncari. Alcuni suoi lavori sono stati esposti in mostra a Genova, Milano, Roma, Napoli, Palermo, Berlino, Parigi e Londra. Nel 2007, insieme ad alcuni colleghi, fonda l’associazione Segni che apre, nel 2013 a L’Aquila, la Casa della fotografia.
Il reportage. Il progetto fotografico La notte dell’aquila. Cronache dalla città clandestina di Marco D’Antonio che lo Stato delle cose accoglie e presenta qui in anteprima, verrà esposto in contemporanea con la mostra “L’Aquila Tesori d’arte tra XIII e XVI secolo” al Forte di Bard. La mostra qui intitolata “La città nascosta” sarà ospitata dal 30 Maggio al 17 Novembre, al primo piano dell’Opera Carlo Alberto, nelle sale Gli Alloggiamenti, appositamente restaurate per l’apertura del nuovo ciclo espositivo del triennio 2019/2021.
«Niente è come sembra. Tutto è irrazionale» ha scritto qualcuno con uno spray in un non luogo dell’Aquila nel doposisma. E non dev’essere allora un caso se il fotogiornalista Marco D’Antonio quel muro seminascosto l’ha fotografato e voluto in quello che sarebbe fuorviante e riduttivo liquidare solo come un reportage. Sì perché La notte dell’Aquila. Cronache dalla città clandestina svela, per la prima volta, l’altra faccia di una città ferita e negata benché, di fatto, fosse sotto gli occhi di tutti. E’ il racconto necessario di un’umanità alla deriva in una città che «esiste solo come passato o come progetto futuro», come annota in una sua poesia l’artista Pelino Santilli.
Per cinque anni, allora, fra il 2014 e il 2018 D’Antonio si è immerso, infilato, confuso col popolo della città clandestina. Una città che, dal 2009 al 2014, era stata sotto presidio militare dell’esercito, una città ostaggio delle regole della zona rossa, eppure una città impossibile da controllare se non in piccola parte. Una città che, pure durante il tempo del presidio degli alpini, mi è parsa paradossalmente indifesa. In questo senso, l’abbattimento della linea di confine fra pubblico e privato è fra le evidenze più nette che ho raccolto quando ho visto per la prima volta L’Aquila dopo il terremoto del 2009 ritrovandomi incredulo a vagare fra case private ed edifici pubblici dove nessuno aveva chiuso la porta. Un approdo facile prima per gli sciacalli e dopo per chi, orfano di una città, cercava luoghi da abitare e da vivere.
Non era tanto il tempo sospeso a sorprendermi quanto la circostanza che L’Aquila fosse così indifesa e vulnerabile, come se fosse stata ferita due volte: in principio dal terremoto e poi da un colpevole, se non irresponsabile, abbandono. Trovo inconcepibile che si sia dovuto attendere l’autunno del 2018 per demolire il complesso dell’ex Banca del Fucino, in via XX Settembre: quegli scheletri di cemento armato sono stati accessibili a tutti esponendo chiunque ne abbia varcato le soglie a rischi per la propria incolumità. Nemmeno le macerie frutto di alcuni crolli dovuti ai terremoti del 2016/2017 che avevano invaso il marciapiede erano state rimosse, ma semplicemente perimetrate con una posticcia recinzione. E si potrebbe continuare a lungo, riportando innumerevoli altri esempi. Ma tant’è.
Di questa e altre vicende legate al doposisma aquilano si è occupata nel corso degli anni con le sue ricerche sul campo l’antropologa Rita Ciccaglione, che nell’articolo Abitare i vicoli e “le case” a L’aquila post sisma. Diritto alla città e spazi di desiderio tra gli adolescenti[1], ha scritto in proposito: «La zona rossa si riduce progressivamente nel corso degli anni, di pari passo ai lavori di messa in sicurezza e di ricostruzione o adeguamento sismico, tuttavia i suoi confini risultano sempre estremamente labili, mai completamente definiti e comprensibili. (…) Alla condizione di degrado che caratterizza gran parte del centro – appena si svolta l’angolo, dietro gli assi viari principali, dove invece è ormai visibile lo stato di avanzamento dei lavori – si aggiunge la mancanza di controllo e sorveglianza, pur istituzionalmente prevista per la gestione di tale spazio. Dal momento che poche sono le famiglie tornate a vivere in centro, la maggior parte delle case risulta di libero accesso a chiunque. O perché in stato di cantiere o perché violate nel corso del tempo, le porte e i portoni sono continuamente aperti e le case esplorate con diverse finalità da ladri, operatori del settore edile, curiosi, turisti, abitanti. Entrare nelle case del centro storico significa oggi constatare che in nessuna di esse il tempo si è cristallizzato: ai traslochi, ai puntellamenti e alla contemporanea visita di sciacalli, si sommano continui e visibili passaggi dove la stratificazione di tempi e azioni non permette in alcun modo di ricostruire una sequenza. Impossibile capire chi, quando e perché vi sia transitato».
A partire dal 2014 e fino al 2018 il fotogiornalista Marco D’Antonio ha indagato cosa accadeva in quello che restava del centro storico durante la notte, e non solo, documentando i nuovi cicli di vita nella città attraverso quello che è diventato un long term project. E con la sua macchina fotografica ha testimoniato una pluralità di situazioni, costruendo il mosaico di una città che credo non sia mai stata raccontata prima almeno attraverso la fotografia. Oltre la retorica del più grande cantiere d’Europa, oltre le narrazioni commosse e oltre il pur comprensibile slogan “L’Aquila rinasce” – gridato dinanzi a ogni piccolo passo compiuto in avanti lungo la strada tutta in salita per la ricostruzione – c’era un’altra città che esprimeva un senso di malessere e bisogni rimasti inascoltati.
«Non basta ricostruire le case per ricostruire una città. Come non basta ricostruire le case per ricostruire la socialità di una città» è il monito dello scrittore aquilano Alessandro Chiappanuvoli, fra le pagine del suo libro Sopra e sotto la polvere. Tutte le tracce del terremoto, appena uscito per i tipi della casa editrice Effequ. E, avverte ancora Chiappanuvoli, fra le pagine di un volume che non esito a definire necessario, «il terremoto non devasta soltanto le case: intacca, a volte modifica anche le strutture emotive di chi vive quell’esperienza, con sintomi che si protraggono per pochi mesi o per anni, che passano o che persistono. Nessuno ne esce immune, nessuno può davvero dire di essere fino in fondo la stessa persona che era prima». Ecco. Attraverso la fotografia Marco D’Antonio ha testimoniato l’esistenza in vita di una città non invisibile ma clandestina e nascosta, innanzitutto perché i suoi destini interessavano a pochi. Ecco che le immagini della Notte dell’Aquila ci conducono alla (ri)scoperta di un’umanità dolente presa a nascondersi nella città proibita per consumare sesso o incontri d’amore o, ancora, ostaggio delle dipendenze patologiche dovute all’abuso di sostanze stupefacenti e alcolici. Ecco, più semplicemente, le case che un tempo hanno accolto le vite degli altri diventare rifugio di fortuna per non passare la notte per strada. Ecco i segni della movida notturna, ad alto tasso alcolico ça va sans dire, e unica alternativa, nel mezzo raggelanti silenzi, alla città operaia dei cantieri della ricostruzione. Ecco ancora una città giovanile che, orfana di spazi di aggregazione, va ad esplorare con una torcia in mano e riabitare i vicoli col favore delle tenebre, esprime la sua urgenza creativa e talora la sua rabbia nel vivere in una città che, per forza di cose, non riesce a essere più accogliente verso le giovani generazioni. Non una scuola, d’altra parte, in questi dieci anni è stata ricostruita. A qualcuno interessa? O va tutto bene così e ci si deve, obbligatoriamente, rallegrare per la riapertura di un negozio e la mai abbastanza repentina restituzione di un bene culturale o di un angoletto di città negata?
Ma perché andare ad abitare la città proibita? Una risposta arriva sempre dall’antropologa Ciccaglione, che nella sua già citata ricerca pubblicata sulla rivista Antropologia [2], ha rimarcato: «L’equiparazione che la zona rossa crea tra spazio pubblico e proprietà privata, insieme al degrado e all’abbandono, trasforma il centro storico in una “terra di nessuno”, dove il mancato controllo delle forze dell’ordine e del vicinato permette ai ragazzi di esplorare, scavalcare, entrare lì dove le porte sono già aperte e di aprirle quando sono chiuse. L’illegalità diviene per questi ragazzi quasi una scelta obbligata, laddove lo spazio abbandonato della zona rossa è visto e interpretato come una possibilità d’uso. (…) La frequentazione dei vicoli e l’occupazione delle case è intesa come risposta alla mancanza di uno spazio sociale e alla disponibilità di spazio fisico, fruibile poiché inutilizzato. Gli adolescenti, allora, producono quei luoghi d’incontro e di socialità che sentono assenti. (…) Le pratiche dell’abitare i luoghi del centro storico che gli adolescenti dei vicoli mettono in atto sono riconducibili, più che a una semplice appropriazione, a una vera e propria produzione di spazi di desiderio attraverso l’uso quotidiano dei luoghi per i propri bisogni».
«Non abbiamo lavorato sull’identità, non abbiamo ragionato sulla nuova identità che – osserva ancora Chiappanuvoli, stavolta in un articolo su Artribune[3] – avremmo potuto darci, benché le nostre bocche fossero colme di ritrovata “aquilanità”, di “torniamo a volare”, di “L’Aquila rinasce”, di “non molliamo”; speranze più che progetti, chimere più che idee».
Questa non è la fiction L’Aquila grandi speranze, questa piaccia o no è la vita reale. Era sotto gli occhi di tutti, ma molti hanno girato lo sguardo dall’altra parte. Marco D’Antonio non lo ha fatto. Questa città l’ha fotografata e raccontata e, in tal senso, La notte dell’Aquila. Cronache dalla città clandestina non può dirsi che un atto d’amore per la città, che ha bisogno soprattutto di sguardi lucidi e disincantati per immaginare un suo plausibile domani.
Dieci anni dopo il 6 aprile 2009, archiviato il giro di boa delle commemorazioni per il decennale, le chiacchiere stanno a zero. E qui conviene ricordare le parole pronunciate il 6 aprile 2019 dal cardinale Giuseppe Petrocchi: «Di promesse ne abbiamo avute tante. Ci sono attese che vanno ora riempite di fatti». Ecco. Oggi L’Aquila non ha bisogno di nuove promesse e non basta una saracinesca che si rialza ogni tanto, né un balcone rifatto in centro, a illudersi che la strada sia ancora in discesa. Oggi L’Aquila ha bisogno che le si voglia bene più di ieri, senza che si continui a voltare lo sguardo dall’altra parte dinanzi ai troppi nodi che sono rimasti ancora da sciogliere. «La mia città è un “Golgota”, un cimitero di croci d’acciaio che racconta il calvario dei suoi tanti cristi appesi alla speranza» verseggia nella sua poesia La mia città l’artista aquilano Santilli.
E ha ragione Chiappanuvoli, quando nel suo libro Sopra e sotto la polvere, insiste nel suggerire che «ridurre gli effetti del terremoto limitandosi alla salvaguardia del patrimonio edilizio e del tessuto economico mettendo in secondo piano, invece, quelli sociali, rischia di essere un errore che le popolazioni colpite pagheranno nel tempo».
Ci piaccia o no lo skyline dell’Aquila con le sue gru è ancora un Golgota di croci d’acciaio ma non è troppo tardi per affrontare il nodo della ricostruzione socioculturale. A cominciare, magari, dalla presa in carico dei destini della città più fragile.
Note
[1] Ciccaglione R. (2017), Antropologia (Rivista fondata da Ugo Fabietti), numero speciale, dicembre 2017, Milano, Ledizioni
[2] vedi nota 1
[3] https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/politica-e-pubblica-amministrazione/2019/03/laquila-a-10-anni-dal-terremoto-lintervento-dello-scrittore-alessandro-chiappanuvoli/
Il giornalista. Antonio Di Giacomo è giornalista professionista. E’ nato a Bari nel 1970 dove vive e lavora per il quotidiano la Repubblica. E’ l’ideatore e il curatore del progetto Lo stato delle cose. Geografie e storie del doposisma.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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