Mi aveva incuriosito un articolo apparso su un settimanale, qualche giorno prima del mio arrivo a L’Aquila. Nei registri anagrafici di questo borgo si contano 82 anime: il più piccolo comune di tutta l’Italia centro meridionale. Nel secolo passato, la punta più alta si registrò nel ’22 quando erano in 1002. Poi il lento ed inesorabile declino, dovuto in parte ai caduti della seconda guerra mondiale e al decremento delle nascite, ma in misura determinante alle emigrazioni: nel 1951 gli abitanti erano 578 e venti anni dopo, nel 1971, appena 179. In soli venti anni, i quattro quinti della popolazione aveva abbandonato Carapelle, cui fu aggiunta la denominazione Calvisio per distinguerlo dall’omonimo comune della Capitanata.
Per il rinnovo del consiglio comunale del giugno 2016 sono state presentate sei liste. I candidati (compresi i sindaci) sono complessivamente 52. Il rapporto è quasi di un candidato per ogni 1,57 abitanti. E’ come se in una città delle dimensioni di Bologna, si candidassero 246.000 persone. Molti tra questi aspiranti consiglieri di un borgo dal bilancio inferiore a quello di un qualsiasi condominio di una grande città non hanno legami di alcun tipo con questi posti, che forse non hanno mai visitato in vita loro. I loro luoghi di nascita, segnati sui manifesti elettorali, indicano luoghi lontani: difficilmente si può pensare ad un fenomeno immigratorio di massa dell’ultimo momento.
Tutto questo è un segno dei tempi: perché un paese fantasma, ove i muri delle case, le pietre, le porte sprangate, le finestre sgangherate che ormai hanno perso ogni colore, restano lì, dopo aver visto scorrere le vicende umane di intere generazioni, merita un rispetto religioso, come quando si entra in un tempio, ove altre persone stanno pregando il loro dio. Ci sono luoghi che appartengono alla trascendenza e questo ove mi trovo oggi è sicuramente tra loro: nessun uomo può mancare di rispetto in qualunque modo. E tutto ciò non ha nulla a che vedere con una visione laica dell’esistenza.
Mi chiedo cosa avrebbe pensato il figlio più illustre di Carapelle, Vincenzo De Bartholomaeis, se avesse assistito a questa anomala competizione elettorale che ha il sapore di una profanazione del tempio. Avrebbe taciuto oppure avrebbe condiviso questo mio disagio interiore che avverto mentre mi muovo nel silenzio siderale di questi vicoletti stretti, in cui il sole non arriva e che si aprono in piazzette delimitate da edifici a due piani, un tempo sicuramente le case dei pochi signori ?
Sulla facciata del microscopico municipio campeggia una lapide in suo ricordo. Filologo classico nato a Carapelle Calvisio nel 1867, si laurea a Roma, e dopo un lungo periodo di insegnamento dell’italiano negli istituti tecnici, in giro per la penisola, nel 1904 ottiene la libera docenza all’università della Capitale. In seguito si trasferisce all’Università di Genova, e poi a quella di Bologna, ove vince il concorso per la cattedra di storia comparata delle letterature neolatine, succedendo a Pascoli e Carducci, fino al 1937. Dieci anni dopo è associato all’Accademia dei Lincei. Tra i fondatori della deputazione di storia patria per gli Abruzzi, lasciato l’insegnamento, sceglie di vivere nelle campagne di Andria, nelle Puglie, in una masseria poco distante da Castel del Monte, l’opera più misteriosa di Federico II. Lì, il professore, nel silenzio della campagna pugliese, continua a dedicarsi intensamente alla filologia romanza. Muore lontano dalla sua Carapelle, a Milano, nel 1953 ove si è recato per qualche giorno, in visita al figlio Ettore. Anche lui come tutti in fuga da questi luoghi, che pur avrà amato per tutta la sua vita ed a cui avrà sicuramente pensato nei suoi momenti di tristezza per trarne conforto, come avviene le volte in cui si cerca rifugio nella infanzia, pensandola l’età più bella della propria vita.
Chissà quale era tra queste, che si presentano oggi davanti ai miei occhi, la casa in cui nacque: sicuramente uno di quei palazzotti che si affacciano nelle piazzette. Suo padre era stato professore come lui, ma nel 1800: all’epoca una professione per ricchi borghesi o per nobili, come il prefisso latino presente nel cognome induce a pensare.
Il borgo è abbarbicato sulla montagna. Le poche case ancora recuperabili e non abbandonate sono in fase di ristrutturazione; altre sono puntellate per evitare il crollo definitivo, ma difficilmente saranno ricostruite. A valle sorge un villaggio M.A.P. composto da tre “stecche”, ciascuna di quattro unità: in tutto dodici case per dare una sistemazione temporanea ai residenti. E’ compreso nel complesso del Gran Sasso d’Italia, non lontano da Campo Imperatore, ove Mussolini fu tenuto prigioniero per circa un mese, il tempo che i nazisti impiegarono per liberarlo.
In paese non c’è anima viva. Mi giro intorno, fotografo l’ampio manifesto elettorale con i 52 candidati. Incontro un giovane straniero, gli domando qualcosa sul terremoto. E’ un muratore addetto ad uno dei pochi cantieri della ricostruzione. Mi dice di venire da un paese dell’est Europa. Da qualche anno si è trasferito in Abruzzo con la sua famiglia: li ha trovato lavoro ma soprattutto pace. Ha uno sguardo mite, buono, come mite e buono è sempre lo sguardo e l’eloquio della gente d’Abruzzo. Abita in un comune non distante. Il terremoto lo aveva già conosciuto da bambino, a casa sua: una notte si era svegliato e aveva visto il cielo stellato. Un muro della camera non esisteva più.
Mi inoltro nelle viuzze e, in un silenzio metafisico, mi fermo a guardare quelle case diroccate. Carapelle è un paese della transumanza: una mappa affissa su un muro ce lo ricorda. Mi astraggo e come in un flashback mi proietto nella scena: un pastore saluta la moglie, i figli, sua madre vedova che abita con loro, tutti nella stessa stanza. E’ un freddo giorno di autunno. Forse li rivedrà la prossima estate. La neve sta per coprire la terra e le case e cosi sarà per tutto l’inverno. Deve portare il suo gregge verso il Tavoliere, dopo aver percorso trecento chilometri a piedi, per strade sconnesse che altri pastori nei secoli hanno segnato con il loro passaggio. Li chiamano tratturi: tracciati in terra battuta, distanti chilometri dal primo centro abitato, lungo i quali malattie e morte sono sempre in agguato. Costa una enorme fatica, ma lo deve fare: vivere mesi e mesi lontano dagli affetti, dormendo sotto le stelle o nelle ampie grotte dedicate al culto di San Michele Arcangelo, alimentandosi sempre nello stesso modo, con un po’ di formaggio e tanto vino, accettando ogni rischio e quale unica compagnia quella del suo gregge. Lo hanno fatto i suoi avi, continueranno i suoi figli. Non può sottrarsi, non può nemmeno fermarsi a pensare se tutto ciò sia giusto. La scelta tra il bene e il male non è un suo diritto.
Il viaggio dura dieci giorni e finalmente arriva alla Dogana della mena delle pecore, a Foggia. Bisogna pagare il tributo al re di Napoli: i pascoli appartengono al sovrano e il doganiere ne assegnerà uno per ciascuno dei trentamila pastori che sono scesi insieme a lui dalle terre di Abruzzo lungo il Tratturo Magno, al seguito di tre milioni di pecore. Una ricchezza enorme per la Corona e per l’industria della lana.
Lascio Carapelle per dirigermi verso Rocca Calascio: un antico castello normanno, ormai diroccato. Lo utilizzano come set cinematografico. Gli esterni più suggestivi de “Il nome della rosa” sono stati girati lì. Percorro in auto la Via delle Vigne. Sin dal 1929 un vecchio cippo ne indica il nome ai viandanti.
L’autore. Piero Lovero è nato a Bari dove vive e lavora. Avvocato e fotografo, predilige la fotografia di reportage e di documentazione dei luoghi del suo amato Mezzogiorno. Le sue immagini sono state pubblicate in diversi libri sulla Puglia e la Basilicata.
Il progetto “Lo stato delle cose” è interamente autofinanziato e reso possibile dalla spontanea partecipazione di fotografi e autori nonché dalla collaborazione e dal supporto, non economico, degli enti locali, istituzioni, associazioni e società che ne hanno condiviso gli intenti documentari.
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